DIPINGERE LA POESIA. Giuseppe Zuccarino

Per GIULIANO MENEGON

Durante il proprio itinerario artistico, Giuliano Menegon si è rapportato a più riprese con i versi dei poeti. In un suo testo retrospettivo ha scritto: «Nel tempo, sono arrivato ad elaborare, partendo da mezzi pittorici tradizionali, vari linguaggi, alla ricerca di quello più adatto al mio scopo. Ma ugualmente necessario è stato affrontare i sentimenti e le emozioni, chiarirli, per poterli esprimere. […] Mi sono allora rivolto ai poeti, a quelli a me più congeniali. Ho iniziato con essi il viaggio in me stesso, ho affidato loro il compito di spiegarmi il male di vivere. Le loro parole mi hanno così aiutato ad affrontare la tela, a trasformare in forma e luce, in segno e colore ciò che riuscivo a intuire. Ho dipinto le emozioni che mi trasmettevano, che erano le mie emozioni. Chi erano, questi poeti? Un po’ alla rinfusa, Leopardi, Montale, Rilke, Eliot, Sylvia Plath, Rimbaud, Govoni, Ezra Pound, Campana». Lo testimoniano le sue trascrizioni o trasposizioni visive: in certi casi, infatti, si tratta proprio di riportare sul quadro, vergandoli a mano, determinati componimenti poetici, mentre in altri è la scelta dei colori e delle forme ad assumere un valore quasi simbolico, stabilendo una risonanza con i versi evocati.

L’impiego della chirografia non è un fatto insolito nella pittura del secondo Novecento. Basti pensare a tre artisti che hanno suscitato in Menegon un particolare interesse, sia per le qualità pittoriche delle loro opere, sia per il fatto di aver introdotto in esse, in qualche caso o sistematicamente, scritte tracciate a mano: ci riferiamo a Gastone Novelli, Cy Twombly e Anselm Kiefer. Il modo di procedere del pittore veneziano (ma trasferitosi a Genova) resta però diverso, e in certi casi più complesso. Non potendo esaminare il lavoro da lui condotto su tutti i poeti citati, converrà limitarsi a pochi esempi significativi.

I dipinti del 1976 ispirati alle poesie di Eugenio Montale delineano un fondo grigio quadrettato che ricorda l’ardesia di una lavagna scolastica, sicché le scritte bianche, leggibili o semicancellate, si direbbero tracciate col gessetto. Ma nel contempo le lavagne, in due dei quadri, divengono anche le pareti di una cella, in cui solo una finestra o feritoia rende visibile un piccolo riquadro di cielo luminoso. Viene richiamato in tal modo il desiderio di evasione presente nel Sogno di un prigioniero o in Godi se il vento ch’entra nel pomario… («Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!»). In successivi dipinti ispirati a Montale, del periodo 1981-82, la tecnica cambia: le scritte bianche sono più piccole e fitte, mentre sulla tela si dispiegano campiture uniformi di colori (azzurro, grigio, ocra). Gli spunti figurativi che erano ravvisabili nei quadri precedenti hanno dunque ceduto il passo al solo rapporto tra le parole del poeta e le superfici di fondo.

Ancora differente è il lavoro effettuato a partire da uno scritto del poeta futurista Marinetti. In questo caso, ad essere assunto quale riferimento non è una raccolta di versi, bensì un manifesto del 1909 dal titolo Uccidiamo il chiaro di luna! Nei quadri, su uno sfondo grigio, nero o blu, figurano piccole scritte in bianco, ma anche, oppure unicamente, enormi lettere alfabetiche a colori vivaci, dipinte in maniera tale da suggerire la loro tridimensionalità, e nondimeno incomplete e asemantiche; talvolta anche falci lunari rinviano al titolo del manifesto. È importante notare che, in questo caso, la scelta di Menegon non implica alcuna adesione alle idee (irrazionaliste, belliciste, misogine) espresse nelle pagine di Marinetti, ma va considerata piuttosto come una presa di distanza nei confronti del «ritorno alla figurazione» promosso, in quegli anni, dagli esponenti della Transavanguardia.

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In un territorio a lui più congeniale l’artista torna con altri due cicli (sempre degli anni Ottanta), dedicati rispettivamente a Campana e a Rilke. Il rimando alle rispettive opere poetiche – i Canti orfici e le Elegie duinesi – viene attuato essenzialmente tramite i titoli dei quadri, mentre appaiono ridimensionate o spariscono del tutto le trascrizioni verbali. Sul piano compositivo, in entrambi i cicli a dominare sono onde vaporose di colori (azzurro, rosso, giallo), che si estendono largamente sul fondo scuro. Nel caso delle opere ispirate a Campana, i contrasti cromatici e l’indistinzione delle forme potrebbero alludere alla percezione fantasmagorica del reale rilevabile in vari testi del poeta, mentre nel caso dei lavori su Rilke il tema degli angeli, evidenziato da Menegon, trova conferma in elementi visivi interpretabili anche come ali.

Nel decennio successivo si assiste a una significativa svolta stilistica. In un testo del 1995, l’artista l’ha chiarita in questi termini: «La mia pittura, nel tempo, si è lentamente trasformata. I pigmenti ad acqua hanno lasciato il posto all’olio, i colori lievi e vaghi a quelli decisi, la luce da tenue si è fatta forte, il quadro da sfondo di qualcosa di impalpabile è diventato scenario di un evento. E non è stato più necessario usare sulla tela la parola scritta come segno. Uno scrittore da me amatissimo […]: Thomas Bernhard. Nelle sue pagine senza speranza, ossessive, ma così lucide e vive, ho trovato il coronamento espressivo dei miei stessi sentimenti […]. E così nei miei quadri sono comparsi i fantasmi del dolore, della morte, della paura». Il mutamento è non soltanto di ordine tematico, giacché investe pure fattori di natura strettamente tecnica: «Il nero, quello fondo e vibrante del bitume, il bianco della luce, il rosso del sangue, sono gli unici colori che compongono ormai la mia tavolozza. Mi sono indispensabili, sono sufficienti. La superficie della tela è densa, ispessita dalle stratificazioni, scavata dai colpi di spatola». Menegon produce in tal modo una lunga serie di quadri potenti, drammatici, nei quali sagome umane biancastre e indistinte giacciono o si erigono su un fondo di bitume con, qua e là, chiazze o striature di rosso.

È possibile che, durante questo periodo della sua attività, l’artista abbia creduto di poter definitivamente fare a meno della voce dei poeti, sostituita da quella, percussiva e inesorabile, del prosatore austriaco. Ma in verità si trattava soltanto di una fase, dato che la pittura di Menegon non è solita attestarsi a lungo su un medesimo modello formale. Lo dimostra una serie di opere realizzate verso la metà del decennio seguente: anche se della fase «bernhardiana» si conserva la pratica che consiste nel sostituire ai titoli citazionali le semplici date di esecuzione dei dipinti, questi ultimi appaiono diversi. Ora le figure umane, pur restando spettrali, risultano più definite. In ciascun quadro, un grande personaggio nero (ma con sfumature grigie o bituminose, e colature per accentuare il carattere perturbante dell’immagine) si staglia con nettezza, in forte contrasto con lo sfondo, divenuto uniformemente bianco. Questi uomini senza volto trasmettono allo spettatore un senso di angoscia, sofferenza e smarrimento. Non è affatto un caso se, in una mostra del 2006 e nel relativo catalogo, l’artista ha scelto di accostare ai suoi quadri dei versi di Paul Celan, un grande lirico i cui testi, non di rado criptici, recano però l’impronta indelebile del martirio subito dagli ebrei durante il secondo conflitto mondiale, come pure del senso di disagio che lo ha tormentato, finendo con l’indurlo al suicidio. Uno dei passi selezionati in quell’occasione da Menegon (da un testo della raccolta Di soglia in soglia) si adatta perfettamente a descrivere gli anonimi personaggi che compaiono nelle sue tele: «Se ne stanno divisi nel mondo, / ognuno con la sua notte, / ognuno con la sua morte, / agri, la testa nuda, nella brina / di ciò che è remoto e vicino».

Ancor più suggestiva, proprio perché in essa l’enfasi è più trattenuta, è una serie di opere ulteriori ispirate al medesimo poeta (cosa resa esplicita, in qualche caso, dai versi che fungono da titolo). Adesso il nero scompare e i colori si riducono perlopiù al bianco e all’ocra. È come se anche le parti del quadro che evocano sagome umane (non più imponenti ma rimpicciolite) fossero velate e rese indistinte dal bianco. L’artista stesso ha spiegato che «il bianco è il vuoto, il nulla. Sulla tela, lasciata grezza, senza preparazione, con il bianco io contorno lo spazio vuoto in modo da fare apparire figure umane evanescenti, fantasmi incerti». Menegon non ha mancato di citare, al riguardo, un altro componimento di Celan (dalla silloge Svolta del respiro): «Quando il bianco ci aggredì, nottetempo; / quando dall’urna delle offerte venne / ben più che acqua; / quando lo straziato ginocchio / fe’ cenno alla campana sacrificale: / Vola! – // Ero, / allora, / ancora intatto». È questa una maniera significativa per confermare che, ai suoi occhi, il dialogo con i poeti, ben lungi dall’essersi interrotto, resta più che mai vitale e necessario.

*Tutte le immagini sono opere dell’autore..

Giuliano Menegon

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