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..a Ercolani la psichiatria come professione fa senza dubbio gioco. Potrebbe ostacolarlo, certo, proiettando l’ombra della terapia su ogni cosa ma siccome l’artista non se ne disgiunge mai, e anzi la sovrasta (o la erode), non solo essa gui fornisce strumenti e distanza, ma soprattutto gli offre materia, che solo l’artista trova il modo di lasciar parlare da sé, aggirando (appunto) il rischio, l’indelicatezza di volerla trasformare in poesia o racconto. Il contatto quotidiano con la follia, l’avvicinamento che essa comanda e la barriera, spesso sottile, che erige, lo difendono dalla tentazione di farne un oggetto, di rendere il dolore astratto e generico, nient’altro che una parola ad effetto, o una sfumatura opaca della compassione: anche quando parla di arte o di poesia, non perde mai di vista la comprensione della malattia, la specificità del dolore e dell’individuo che ha di fronte, per trovare un modo migliore per affrontarli, gestirli, lenirli, in sé oltre che nel “paziente”.
La luce non è mai unidirezionale: è sempre (almeno) doppia (arte-follia; scrittura-terapia-comprensione-partecipazione…) e su almeno due piani (psichiatra-folle; psichiatra-artista; artista-artista; “malato”-malato…), con almeno due obiettivi: la clinica e, più che la scrittura (come sarebbe più presumibile), la quotidianità, per trovare un modo per gestire l’esistenza, l’emergenza che è la sua normalità. Si dovrebbe poter “tenere un diario correndo (…) provare a non vestire più le mie follie con abiti da cerimonia” (Turno di guardia, p. 32). Ed proprio questo che Ercolani fa sempre più spesso nelle sue ultime opere, soprattutto in Turno di guardia.
A volte ci si nasconde meglio parlando di se stessi e delle cose che ci capitano, e ci si rivela di più assumendo altre identità (perché sembra di poter parlare impuniti) o creando personaggi ex nihilo, come se fosse possibile. Il problema non è celarsi, mimetizzarsi, mascherarsi o rivelarsi: il problema è quello che si fa con la scrittura, quello che esce: e nemmeno quello che viene detto, ma il tono, la capacità di convincimento e le proiezioni o assunzioni che suscita. Il narcisismo della prima persona nelle cosiddette autofinzioni è un problema secondario, se non falso; dipende ancora da cosa ne fai, dalla banalità o originalità di ciò che viene detto e del modo, dalla semplicità o dalla complessità; dal fatto che la semplicità va verso la banalità o se contiene invece pluralità e stratificazione; e viceversa se la complessità non è per caso confusione o abboracciatura (cioè superficiale in senso classico…), ecc.
La finzione che funziona meglio, a volte, è proprio quella della “sincerità”, che parte magari dalla propria esperienza e parla della propria via, e invece le usa soltanto come trampolino, o maschera dell’invenzione della comprensione dell’altro. Ed è spesso quando mette direttamente e chiaramente in campo se stesso, che Ercolani riesce anche parlare meglio degli altri: a parlare degli altri come altri.
È sul filo di questa serie di doppie partite che sta Ercolani: in bilico, ondeggiando sul filo teso tra voce propria e voci altrui. Tra invenzione e riflessione, filo che le unisce e separa e che appartiene ad entrambe; soprattutto filo, o più correttamente linea che percorre il bordo sfrangiato tra malattia e salute, tra follia e presunta normalità, delirio e ragione, silenzio rumoroso e discorsi inauditi; linea di una piega che distingue e cuce assieme la distanza, e il distacco della terapia, e la pura umanità (l’amore), che condivide e un po’ già guarisce da sola, e da sola già un po’ capisce.
*Il testo è tratto da: Luigi Grazioli, Le anime di Marco Ercolani, Edizioni Bacacay, Fara Gera d’Adda, maggio 2012.


Luigi Grazioli