TRACCE

“Un poeta deve lasciare tracce del suo passaggio, non prove. Solo le tracce fanno sognare”. A partire da questa frase di René Char si sviluppa tutta la tematica del festival “Tracce. Arte + Alterità + Altrove”, organizzato dall’Asl Roma 2 U.O.C. D8 e dal Centre Hospitalier Les Murets (Parigi), tutta incentrata sull’arte. Il tema della vocazione inclusiva nasce dal desiderio sempre presente e modificato di conoscere cosa sia la follia: ci si ispira a Basaglia e a Tosquelles, rinnovatori della psichiatria contemporanea, per contrapporre la visione antropologica di follia a quella strettamente medica.

Tracce” è il risultato del connubio tra artisti e pazienti dei Csm (Centri di Salute Mentale): attraverso incontri con il pubblico, si svaluteranno idee preconcette e si favorirà lo scambio di ruoli sociali. Il festival si è svolto, nella sua prima parte, il 23 settembre a Parigi e proseguirà nei giorni 10/11/12 Novembre 2022 in diversi luoghi tra il Centro Diurno San Paolo e lo spazio espositivo SIC12 artstudio APS, sempre all’interno dell’VIII Municipio.

Gustavo Giacosa, direttore artistico della manifestazione, spiega come quest’ultima presenti un programma fatto di varie forme artistiche come mostre, spettacoli e concerti, espressione propria della destigmatizzazione della malattia mentale: a ciò seguiranno momenti di discussione spontanea e confronto.

È un’ottima occasione di gemellaggio ed interscambio internazionale tra Italia e Francia, con la comunicazione di due realtà differenti; e chissà che, nei prossimi anni, questo tipo di manifestazioni possano essere ampliate anche ad altri Paesi, fino a conoscere altre realtà contigue o completamente differenti da quella italiana.

Gustavo Giacosa*

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Per Lorenzo Pittaluga

Pensare l’oltre

Ho sentito dissotterrare

la storia grave della mia mente

Lorenzo Calogero

Conosco Lorenzo nel 1983, un anno dopo avere iniziato il mio lavoro come psichiatra presso il servizio territoriale di Genova-Bolzaneto. Mi era stato segnalato che un ragazzo di 17 anni si aggirava, in piena notte nel suo paese natale, Manesseno, bussando a tutte le porte e gridando a tutti di essere un santo. Da qui il suo ricovero in ospedale, e poi il suo essere affidato alle mie cure. Ricordo la sua risata stridula, i capelli rossi, un’aria impertinente da ragazzo: il nostro rapporto che nasce, vivo, intenso, tra gioie e contrasti. Lui sa di me come scrittore, comincia a leggermi poesie a ogni colloquio. I colloqui si infittiscono. Viene tutti i giorni in servizio, gli riservo una stanza dove comincia a fumare e a scrivere, quasi interrottamente. In servizio si sente infelice. Vive con una zia, bigotta e ottusa. Il rapporto con l’unico fratello è quasi assente. Il padre è morto quando lui aveva otto anni. La madre è deceduta un anno prima, durante un ricovero in ospedale per una crisi schizofrenica. Inizia fra noi un’amicizia terapeutica che durerà dal 1983 al 1995, anno della sua morte. In quei dodici anni. tenterà dei lavori occasionali, della durata di pochi mesi, fra cui quelli di pasticciere e di fattorino. Tenterà di trovare delle relazioni femminili, che si riveleranno belle e durevoli amicizie ma niente di più. La sua vita la passava in servizio a scrivere, e spesso voleva scrivere a quattro mani con me, su temi che decideva lui. Credeva appassionatamente in Dio. Di se stesso, a livello inconscio, parlava pochissimo e in modo evasivo, sfuggente. Ricordo il suo amore assoluto per il padre, che perse in tenera età. Della madre non accennava mai. Rimpiangeva che il fratello non gli fosse più vicino, ma il fratello Roberto rimuoveva il lato oscuro della malattia mentale (la madre, Lorenzo) rifugiandosi nel lavoro, nel silenzio, nella quiete della propria famiglia. In quei dodici anni Lorenzo cercherà di togliersi la vita almeno quindici volte, o in modo leggero e dimostrativo (pastiglie) o in modo più clamoroso (la prima volta quando si getta nel vuoto e la sua caduta è interrotta dal telo di un negozio, si frattura una gamba e sopravvive). E poi, quello definitivo, dall’Ospedale di San Martino, a Genova, all’età di 28 anni. Tutti i suoi ricoveri li ha voluti lui stesso, quando si sentiva triste e svuotato. La diagnosi corretta della sua sofferenza psichica è: Sindrome schizoffettiva. Una delle frasi che gli piaceva dire è questa: “Quando mi sento troppo male, non posso scrivere. Quando mi sento troppo bene, non posso scrivere. Quando non mi sento né bene né male, scrivo”: una vera e propria teoria di “poetica”. Quando era allegro, era sfrontato. Contattava direttamente i poeti contemporanei (Mario Luzi, Milo De Angelis, e altri), gli scriveva o gli telefonava, si proponeva coni suoi versi; era euforico, irritante, ostinato. In vita, ha pubblicato tre plaquettes e un libro. Due critici e poeti, Elio Grasso e Stefano Guglielmin, si sono interessati alla sua opera, e Francesco Marotta e Cristina Anno, nel blog “La dimora del tempo sospeso”.

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Se è vero che la malattia psichica determina una sensibilità particolare, come se non ci fosse più lo schermo della pelle a riparare dalla percezione esterna del mondo i confini dell’anima e a proteggerla dall’invasione interna dei fantasmi, di questa sensibilità Lorenzo è testimone. Volendo fuggire dall’inevitabile cronicità della sua sofferenza psichica – ricoveri protratti, abusi farmacologici, episodi confusionali, molto frequenti negli ultimi mesi di vita -, Pittaluga non reagisce in modo sommesso, non si “abitua” alla malattia, della quale era da sempre consapevole, ma decide un tuffo euforico nell’estasi della poesia e nell’ignoto della morte, pervaso dalla stessa esaltazione con cui raccontava a me, ancora diciassettenne, il delirio di essere santo.

Per Lorenzo la vita non è mai solo la vita ma la metafora della vita. E oggi, con la sua esistenza assente, esemplifica una verità assoluta: un poeta non può che pensare l’oltre. «Io non resisto ai princìpi / senza vera sostanza, / presento un resto,/ un ritardo tra gli uomini». Lorenzo non ha avuto il tempo di raggiungere, tra il sé e il non sé, un equilibrio in cui riformulare in termini meno drammatici la sua personale scommessa contro l’ordine mediocre del mondo, e si è perduto. Ma oggi, a più di vent’anni dalla scomparsa, rimane, a noi che sopravviviamo il suo tragico “modo” di dire che la vita è straordinaria e va vissuta anche perdendola. Con la sua poesia Pittaluga non ha riscattato nessun dolore biografico, né spiegato nulla di sé. Si è solo “percorso”. Leggeva prosa e poesia in modo febbrile, apparentemente con scarsa concentrazione, ma si imbeveva come una spugna delle parole altrui. Assorbiva parole da ogni stimolo esterno, da ogni sensazione, come se non avesse potuto fare altro che immergersi nella loro materia, nella loro sintassi, in cui combinava, articolava, disarticolava il linguaggio. Come se, non essendo facile vivere, potesse sostituire la vita con l’incantesimo di una parola “liberata” dai vincoli del significato. Lorenzo usava metri e timbri diversi: non era naif in poesia, né selvaggio né istintivo, ma, al contrario, meticoloso e ossessivo. Non poteva tacere. Doveva esprimersi. Ma non è vissuto abbastanza per mettere in rapporto le sue parole con la sua vita: ha vissuto quelle e questa come due universi non comunicanti che, nell’attimo in cui si fossero compenetrati, temeva andassero in cortocuircuito.

Oggi, però, non importa sapere nessuna “verità” sulla sua avventura terrena. Invece, del suo sforzo di rendere le parole vere e vive Lorenzo ci lascia una scia definita: le sue poesie, che oggi leggiamo e rileggiamo. Ci rivela come abbia potuto, in assenza di una vita sintonica, scrivere una poesia dissonante, distonica e spigolosa, infelice ma decisiva, posseduta dal sogno di una euforica trascendenza, nutrita dalla complicità con la morte, sì, ma immersa nella vita, con ostinazione, anche quando la vita, per lui, si riduceva a essere soltanto un gruppo di parole. Ma quelle parole – la loro forma, il loro intrico, il loro addensarsi e respingersi – erano il suo modo di rappresentare/nascondere un nodo biografico troppo doloroso che con altre parole – quelle della terapia, forse della guarigione – non avrebbe saputo e potuto sciogliere.

Lorenzo non ha risolto i suoi conflitti, li ha troncati. Lo testimonia la morte tragica, ma non improvvisa e non imprevista: un tuffo nel vuoto dal decimo piano dell’Ospedale di San Martino, a Genova, pochi giorni dopo il Natale del 1995: «in un sussurro / impercettibile sussurro / dove le più tenere voci languiscono (cetre?) / al suono – / duro – / nella polvere / precipitato». Di questo precipitare – volo magnifico dell’Albatro che rifiuta di marciare goffamente sul ponte della nave – Pittaluga ha testimoniato, sentendosi “fantasma vero d’ogni inamovibile realtà”, essere umano affaticato dal peso dell’esistente, pervaso dal desiderio di una metamorfosi liberatoria che sciogliesse i nodi del suo malessere per sempre.

Oggi, a oltre vent’anni dalla morte, siamo autorizzati a rileggere le sue poesie edite e inedite, e ritrovare, se il mio intuito critico non inganna, un poeta tragico, beffardo, surreale, inclassificabile, la cui inattualità coincide con la risonanza speciale delle “anime strane”, sempre fuori da ogni progetto razionale, quindi sempre esposte alla vita, quindi potentemente reali. E, per quanto mi riguarda, posso aggiungere che, dal 1995 fino ad oggi, Lorenzo è stato accanto a me, sentinella del dire poetico, della sua necessità. Quando lui si tolse la vita, mi chiesi se avessi fatto abbastanza per lui, se alimentare la sua passione per la poesia fosse stato un atto curativo o non avesse invece provocato in lui conflitti insanabili. Ma poi mi diedi una riposta. Visitando la casa della vecchia zia sopravvissuta, quella zia bigotta e anaffettiva che quando lui morì mi disse che “suo nipote aveva fatto una brutta caduta”, trovai decine e decine di biglietti d’addio, scritti da un Lorenzo undicenne o dodicenne, in cui ripeteva come il mantra di Shining “Il mattino ha l’oro in bocca”, queste parole: “Mi suicido perché sono un grande poeta”.

Io non c’entravo affatto con la follia poetica di Lorenzo, albatro che cammina goffamente sul ponte della nave dei vivi. La pulsione incoercibile dell’adolescente, e poi dell’uomo, verso una morte poetica come tuffo romantico nel vuoto, è il suo riscatto ultraumano dalla vita incolore, dolente, negli ultimi anni) da alcolista e da matto. Scrive il filosofo Andrea Emo, “gli individui che denominiamo singolari sono singolari appunto perché sono plurali e contengono in sé individui diversi e contrastanti”. Scrive Baudelaire: «L’arte è essenzialmente demoniaca». Demoniaco significa perturbante: qualcosa che irrompe, intruso e inatteso, a sovvertire i canoni noti. L’arte, non conciliante e non prevedibile, ci fa correre il rischio della follia, per eccesso di utopie, progetti, emozioni, dolori, e ci porta a fallire. Ma esiste un’altra follia che consente, come direbbe Andrei Tarkovskij, il compito impossibile: «scolpire il tempo». Dare forma, non effimera, a qualcosa che traversa, ammutolisce e toglie la ragione. Costruire la forma che la follia detta – scarabocchio stravagante, pericoloso “perturbamento”, così come Thomas Bernhard descrive questo concetto e lo spalanca: «in ogni testa d’uomo è insita una catastrofe commisurata a quella testa». Di questa catastrofe Lorenzo è stato attore, ma anche vittima.

Marco Ercolani

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Scritture

Le scritture, le mie, naturalmente
nate postume, celano la forma
del riposo, del denso incantamento.

Versi da gogna nati per non restare,
per morire embrioni innalzati
dal mio ostinato orgoglio.

Leggimi di notte come io scrivo,
fallo pietosamente, con indulgenza,
perché, lo sai, sono nato sfinito.

Diritta non è la mia strada,
confuse le orme. Sulla selce,
calciato, è il mio volto incancrenito.

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Congedo

Con le sue parole
che non prendono l’osso del cuore,
parole rarefatte

che non schiudono le labbra altrui
in dolci fonemi. Ma io sono in un mondo
migliore, sono la foce
e la sorgente: sono Lorenzo.

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Lorenzo Pittaluga nasce nel 1967 a Cremeno di S. Olcese, nei dintorni di Genova. La prima plaquette in prosa, del 1987 ha come titolo un verso di Rimbaud, Arcobaleni tesi come redini. È del 1989 la prima plaquette poetica: Marginali annotazioni di un modesto ventriloquo di provincia. La rivista “Arca” pubblica Poesie del primo giorno e Con gli interessi di una rosa. Nel 1992 esce Arca di fiume. Per le edizioni Campanotto, nel 1994, pubblica Le ore della sete. Pochi giorni dopo il Natale del 1995, durante l’ennesimo ricovero psichiatrico, si getta nel vuoto e si toglie la vita. Nel 1997 esce postumo, per Graphos editore, L’indulgenza, a cura di Marco Ercolani ed Elio Grasso. Le edizioni Campanotto pubblicano, nel 1999, La buona lentezza, su iniziativa del Comune di S. Olcese, con due brevi saggi degli stessi curatori del libro precedente. Nel 2009 esce la raccolta Al termine di noi con acquerelli di Claudia Sansone (Joker, 2009), sempre con interventi di Grasso e Ercolani. Nel 2015, a vent’anni dalla morte, viene pubblicato, sempre a cura di Marco Ercolani, il libro antologico Sono la foce e la sorgente. Poesie 1983-1994, per le edizioni Pequod.

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