OBLIQUO

Lezione di Thomas Bernhard, 1985.

*Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Lezioni di eresia, Graphos, Genova 1996.

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Umberto Orsini interpreta, di Thomas Bernhard, Il nipote di Wittgenstein.

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Non so cosa volete da me. Nulla, io spero. Perché è del nulla che parlo da sempre. Non vorrei mi aveste scambiato per un altro, uno che si chiama Thomas Bernhard, scrittore di romanzi storti e sghembi, folle monomaniaco che si aggira come un cieco nella sua scrittura e non sa come districarsene; non vorrei mi aveste preso per questo essere bizzarro che sa muoversi solo in modo obliquo, scavando cunicoli; voi dovreste vederlo, continua a scrivere ininterrottamente, dentro qualche punto della sua testa, e poi gli presentano un foglio e lui lo guarda come se fosse cieco; in realtà vede molto bene tutto, i margini della carta, le proporzioni del foglio, il bianco che l’invade, ma non sa cosa dire, cosa fare, cosa aggiungere; e magari sarebbe necessario fare qualcosa, perché nessuno ha mai fatto nulla di serio, soprattutto lui, e tutta la sua tetra e tenebrosa cantina non è che un immenso cumulo di fogli bianchi sui quali per mille volte al giorno avrà tentato di scrivere qualcosa, ma non è riuscito a nulla, mai a nulla, e si è sempre aggirato lì dentro come un cieco; peggio, un cieco vedente, di quelli che non sanno usare né gli occhi né le mani e si vorrebbe lasciarli al loro destino, solo che si ha pena di loro, non sanno come comportarsi, come muoversi, e si aggirano da miserevoli professori che ogni tanto hanno bisogno di tenere qualche lezioncina sulle loro erudite sciocchezze. Spero proprio che voi non vi aspettiate una lezione da Thomas Bernhard.

Io lo conosco bene quel tizio, Non per generare inutili sospetti, ma mi sembra un tipo ottuso, uno sciocco che ripete gli stessi libri come un carillon stonato, con le identiche frasi, cambiando oggi un nome e domani un aggettivo e cercando di trovare la formula magica che non troverà mai, e dopo cancellando tutto e facendo un bel fuoco con gli ultimi romanzi e lasciando la cantina sempre colma di fogli bianchi. Non vorrei che soccombesse di fronte alla sua prepotente e impotente logorrea: in effetti non fa altro che aggirarsi in mezzo alla vita in modo obliquo, come se si volesse staccare da questa pelle, dalla sua pelle, e quando scrive è come un insetto che sale piano piano piccolo e detestabile. Non vorrei che vi aspettaste una lezione da lui, Sarebbe complicata e prolissa. Non ci capireste assolutamente nulla. E lui sarebbe costretto a ripetere i suoi concetti, che non avrebbe dovuto formulare neppure una volta. Ho avuto l’occasione di leggere certi suoi saggi giovanili, che non so come siano rimasti negli archivi di una fondazione, e ho provato solo disgusto: era evidente come cercasse di spiegare certi temi che lo affascinavano e li esprimeva, quei temi, ma nello stesso momento era tormentato dal virus del dubbio, e correggeva e ricorreggeva, e con la frase successiva minava la frase precedente, era un accumulo di esitazioni, un penoso insieme di malintesi. Sapete meglio di me come la scrittura paranoica e sospettosa generi non racconti o poesie ma vischiosi impasti di frasi, dove una parola chiama l’altra, un aggettivo il prossimo, e la sintassi si impiglia in un monologo interminabile da cui non riesce a uscire fuori. Ecco cosa fa questo scrittore: man mano che scrive si impantana, ficca gli stivali nel foglio melmoso, cerca di fare un passo ma in realtà si muove solo di pochi millimetri; annaspa, cerca di togliere il fango, di cancellare le frasi, ma l’impresa è disperata, lo stivale bisogna spostarlo, non si può andare avanti e tornare indietro è impossibile, Non so se sapete cosa significhi un monologo che vi martella le orecchie per tutte le pagine di tutti i libri, interminabilmente, come se foste legato mani e piedi alla seggiola di legno di una vecchia biblioteca austriaca, e il bibliotecario, un uomo mite, vi raccontasse con voce neutra tutti i libri e tutto il loro contenuto, ma lentamente, molto lentamente, sillabando le parole, e voi lo sentite. questo penoso infinito, nel tono della sua voce, e sognate il silenzio assoluto, fantasticate l’assenza della voce umana.

Come vedete le lezioni sono pericolose. A meno che non si tratti di un insegnamento necessario, come premere la gola di un idiota che vi ha ossessionato con i suoi mozziconi di frasi nel corridoio d’attesa di qualche esattoria o mettere una bomba sotto un presidio di polizia mentre i poliziotti si raccontano ridendo la storia di otto anni, violentata in qualche cantina di Aftling da un carpentiere ubriaco.

Vorrei ricordarvi che l’unica salvezza della specie umana sta negli uomini obliqui. Io definisco obliquo l’estraneo che piomba di nascosto in una famiglia tranquilla e fa una strage perfetta, quell’uomo che sputa sui piatti più prelibati dei pranzi di nozze, quell’intruso che, quando dormi, si avvicina alla tua scrivania e riempie il tuo foglio di bestemmie, disegna cazzi e fiche accanto alle tue frasi sublimi; quella specie di paria, di folle, di idiota, che comincia a cantare sui tetti a squarciagola quando tutti gli abitanti del paese dormono: quella straordinaria figura, un po’ bassa e un po’ storta che sguscia nelle sfilate di moda, tra corpi bellissimi e pose statuarie; quel mendicante che davanti al Gasthof Astoria ha una crisi epilettica; quell’essere, infine, che mentre cammini sale obliquamente dalla terra mezzo sporco di fango, borbotta, si straccia i vestiti, ti cammina acccanto.

Da quell’uomo potreste aspettarvi una lezione. Non da me, non da Thomas Bernhard. I nomi sono morti, scivolati via dai corpi. Resta una fanghiglia di parole da cui pescare ancora qualche anonima traccia – scrittura? pittura?

Thomas Bernhard

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