LA FERITA E L’ABISSO. Daniela Bisagno

Per “La morte di Don Giovanni” di Thomas Stern

Per “L’età della ferita” di Marco Ercolani

«Ciò che è trascurato sfugge»

Sofocle, Edipo re

Caro Marco,

il grido di Don Giovanni nell’opera mozartiana esprime rabbia, disperazione – dice Thomas Stern – ; lo separa dal pubblico degli spettatori e amanti della lirica, «come il suppliziato si esclude dal gruppo di quelli che lo guardano morire». Al tempo stesso, questo grido “incongruo” rompendo, con l’irruzione improvvisa di un “imprevedibile” (un’incomprensibile cacofonia) l’incanto, è una lacerazione o ferita che si apre repentinamente nell’orbita della bellezza, laddove prima tutto era equilibrio, armonia, ordine, e suscita perciò un comprensibile spavento. Per l’esattezza, uno “spavento perturbante” come lo definisce Stern, con una locuzione di chiara matrice freudiana, in cui lo spavento è l’esito di uno shock prodotto dall’epifania di un evento sconvolgente o Unheimliche.

Nel caso del Don Giovanni l’urlo è la risposta “tragica” e “incongrua”, appunto, dinanzi all’abisso che gli si spalanca di fronte e in cui verrà risucchiato, non altrimenti dal papa Innocenzo X che Francis Bacon rappresenta mentre, aggrappato al suo scranno, precipita nel vuoto emettendo, anch’egli, un grido di orrore e di spavento. In entrambi i contesti l’urlo, lanciato realmente dall’eroe mozartiano, e solo evocato, seppur con mirabile realismo, dagli artifici dell’arte, nel caso del papa Innocenzo X dipinto da Bacon, è la reazione terrorizzata di fronte a questo aprirsi improvviso dell’abisso in cui inevitabilmente si cade.

Se la caduta, infatti, è già paurosa per l’uomo che sente di perdere d’improvviso ogni solido punto di riferimento terreno (ogni caduta è sempre un’anticipazione della morte), ancor più spaventevole è, per ovvie ragioni, la caduta nel vuoto – quel vuoto su cui non ci si può affacciare – per vedere -, senza precipitare. Come se l’esperienza della visione e l’esperienza (estrema) della caduta fossero così inestricabilmente legate, che l’una non potrebbe darsi senza l’altra.

A questo punto, c’è da chiedersi: la visione perturbante, fautrice di spavento, che è in questione qui, è realmente quella che ha per oggetto un ignoto, come potrebbe sembrare? Se ci atteniamo all’accezione freudiana di perturbante, direi proprio di no, visto che das Unheimliche si definisce, nell’ambito dell’analisi freudiana, come “l’accesso alla prima patria”, l’affioramento di ciò che, in origine noto e familiare, in un secondo tempo, mercè l’intervento della rimozione (la fata madrina malvagia delle fiabe), è stato consegnato all’oblio. Anche se si tratta di una rimozione, che non esclude un ritorno, sotto altre spoglie, di quanto lì per lì era stato destinato a una fine tanto ingloriosa. Dice bene Thomas Stern: quel grido “separa” Don Juan dal pubblico, lo emargina per sempre dalla comunità degli astanti che assiste con disagio e fastidio a quella esternazione così violenta da mandare in pezzi le buone regole dell’armonia.

E tuttavia, a pensarci bene, tale separazione, più ancora che dall’irruenza scomposta di quel grido capace di urtare la sensibilità musicale (e non solo) degli spettatori, sembra determinata dall’unicità dell’esperienza di cui il Don Giovanni mozartiano è protagonista. Egli vede ciò che nessun altro potrebbe vedere – qualcosa di familiare (e ignoto al tempo stesso) a lui solo, che attiene cioè al campo semantico del suo vissuto personale –; prova ciò che nessun altro, eccetto lui, può provare in quel preciso istante, ovvero, la “sensazione dell’abisso”, ben nota a Baudelaire, come osserva il tuo Kafka, la quale fa tutt’uno con la percezione netta della vita che precipita in morte, della vita-verso-la-morte la quale è anche «il solo luogo possibile della scrittura» (L’età della ferita, p. 69).

E chissà se l’esistenza avventurosa e libertina del seduttore per antonomasia, protagonista dell’opera di Mozart, non sia stata solo una strategia messa in atto all’unico scopo di sfuggire a questo abisso, di scongiurare il riaprirsi di quell’antica ferita che fa gridare di dolore «a pieni polmoni» il tuo Kafka, con una violenza non meno inumana e scomposta del Don Giovanni mozartiano.

«Essere continuamente squarciato nel medesimo canale della ferita, veder medicata nuovamente la ferita, già operata infinite volte, ecco il guaio» (L’età della ferita, p. 70): la violenza su cui l’arte punterebbe, secondo Stern, non corrisponde forse a questo essere continuamente squarciati nel medesimo canale della ferita, a questa esperienza del medesimo/ignoto, che spaventa più ancora della sofferenza che procura? E il baratro pauroso che Don Giovanni vede aprirsi di fronte a sé, e in cui la sua vita precipita definitivamente verso la morte, non è forse un’immagine di questa ferita stessa dilatata all’infinito, in un infinito che si fa ferita abissale, senza scampo?

E quel rituale cruento dello squarcio ripetuto, proprio nel medesimo punto, della lacerazione, poi rioperata, medicata infinite volte e nuovamente lacerata, non potrebbe corrispondere a una sorta di provvedimento “igienico” profilattico finalizzato a scongiurare che la ferita, da semplice squarcio, spiraglio sull’Altro, si trasformi, a furia di essere trascurata o addirittura ignorata, in quel baratro destinato a risucchiarci come nel caso esemplare di Don Juan? Ed è il riferimento che Stern fa, in chiusura, alla tragedia, aprendo uno spiraglio su uno scenario vastissimo che andrebbe la pena di esplorare, a riporta dritti nel cuore di un’altra ferita, cioè a dire, in quella cesura scoperta da Hölderlin nel tragico nella quale Simone Weil scorgeva la lacerazione in grado di aprirci al mondo.

L’evento tragico è appunto questa piaga grazie alla quale si può guardare l’oscuro e scorgere in esso la luce che (come il Phanes orfico) abita nelle sedi della notte. È nella cesura, nell’interruzione aritmica, spiazzante – spazio vuoto dentro la forma, pura parola – che cessa, insieme all’armonia, anche l’espressione in quanto tale, e si affaccia ciò che è privo di espressione, secondo Benjamin. E questo vuoto, spazio atopico «che si apre nel discorso come un intervallo, come un luogo intermedio» – miheure o Zwischenraum, rendendo visibile quell’immane abisso in cui ad esempio Edipo penetra “facendolo diventare il suo nefas”, ha questo di peculiare: che non è rimarginabile.

La piaga resta (deve restare) aperta, come la ferita di Filottete, o quella su cui operano con oculata perizia i misteriosi torturatori del brano kafkiano, perché l’inespresso che affiora dalla cesura è in realtà un irriducibile – non può (essere annesso alla forma, non può essere fatto oggetto di conquista e di dominio. Ma soprattutto non va assolutamente trascurato («ciò che è trascurato sfugge» dice Sofocle, per bocca di Creonte, nell’Edipo re, vv. 108-110), come gli antichi, assai più accorti e smaliziati di noi nei commerci con l’invisibile, mostrano di aver intuito quando, con perfetto istinto rabdomantico, individuavano, nel mondo di qua, le soglie meravigliose, i confini con l’Altrove o perturbante, come lo chiameremmo nel nostro linguaggio odierno.

Mundus patet era la formula che dava il nome a un rituale religioso romano, nel corso del quale, in determinati giorni dell’anno, il pozzo (mundus) scavato al centro della città si apriva, consentendo ai misteriosi abitatori dell’aldilà di irrompere nello spazio dei viventi. L’antico rituale romano grazie a cui gli oscuri segreti dei Mani (l’inespresso, il “rimosso”) potevano tornare alla luce, riattivava così quella comunicazione tra vivi e morti mai realmente interrotta (il mondo antico era tutto disseminato di queste mirabili soglie). Sicché, risintonizzandoci con le parole di Simone Weil, potremmo concludere dicendo che la lacerazione – la cesura tragica – non ci apre solo al mondo, ma anche al mundus, costringendoci a prenderci cura di quell’”inatteso” o “inaudito” che costituisce l’oggetto della colpevole… trascuratezza, per la quale lo sventurato eroe mozartiano pagherà un pegno così alto.

Filottete

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