A Paola Ricci

Se mi intervistassero sull’Art Brut, sarei stufo di parlare di Art Brut. Perché non parlare, invece, dell’opera pittorica di Victor Hugo? Le macchie di rovi, i rami incurvati dalla folgore, i torrioni distrutti; un faro che sembra una guglia, a cui sono appese forme di sassi; una mano che diventa l’occhio di un mostro nella notte; foreste buie viste a volo d’uccello; montagne emerse da acque soprannaturali; fra brandelli di nebbia, macerie di strade, segnali, nomi; la piccola barca che affiora dal nero e svela come mare notturno l’inchiostro sparso sul foglio. Quel tratto convulso, preinformale. Quel silenzio sinistro sotto le tante frasi di cui è virtuoso. Quella crepa più eloquente di mille parole sublimi. Alle immani architetture della Poesia e del Romanzo, che vorrebbero contenere la molteplicità del mondo, oppone il segno fulmineo della mano soggiogata dalle visioni. Certi castelli illuminati e maestosi, riflessi nell’acqua nera, sono l’inferno di una porta sghemba, la macchia stregata di un regno disabitato dalla ragione.
I folli amano proprio questo. Non vedere ma visionare il mondo. Visionarlo sempre come Hugo lo faceva talvolta. Hugo, già. Victor. Chi lo avrebbe detto? Precursore dell’Art Brut, arte orfana di padri e di madri, figlia di bambini e di pazzi, è il gigantesco Vate della poesia francese.
Per eccesso di utopie e di emozioni, la vita ci spinge al suo vero scopo: toglierci la ragione. La vita è vita anche senza una realtà tangibile: non si cura della logica, non si traveste di interpretazioni, ama anche la propria morte. Io non ho mai amato vivere e non so se sono capace di amare. Nella mia iscrizione funeraria vorrei inciso un frammento del mio pensiero, non una nota biografica. L’uomo – se è una creatura umana – vive, giorno dopo giorno, questa necessità di fuggire da se stesso. Malato, vuole guarire. Guarito vuole ammalarsi. Immobile, tenta di correre. Canta, quando sembra tacere. E, da Vate immenso, diventa balordo Scarabocchiatore.



