LE LACRIME DELLE COSE. Chiara Romanini

Le fotografie nel testo sono di Chiara Romanini

Da sempre fotografa e regista delle proprie immagini, Chiara Romanini ferma le sue visioni in fluide “sculture” fotografiche, dove è impressa la malinconica magia del fantasma. In questo caso, il tema delle Ninfe è rappresentato sia dalla presenza costante dell’acqua sia da spazi di semi-materia dove forme indistinte si offrono alla metamorfosi all’interno di un pensiero visivo che evoca la caducità, l’oblìo, la reminiscenza, frammenti di memoria. Ma queste Ninfe, stracci di immagini, percezioni oscure o luminescenti, vaghi simboli di scomparse, sono velate, difficilmente raggiungibili, perse fra rifrazioni di vetri e di specchi. Domina non il contrasto, il chiaroscuro, la ricerca dell’immagine bella, ma un tono opaco, un velo di polvere, un senso del grigio, come viene teorizzato da Paul Klee quando scrive: “…si approda inevitabilmente al concetto di grigio, di “punto-grigio”, punto fatidico fra ciò che si diviene e ciò che muore”. Neppure è facile rintracciare in queste fotografie l’immagine classica della Ninfa, ma i movimenti cangianti del suo spettro, apparizioni oscure che scintillano nel buio, tra dispersione e dissoluzione dei confini: qui domina l’esperienza dell’infinito (e del non-finito) come nuova forma del sentire, dilatazione dell’anima, abbandono al vuoto del nulla. Le inquietanti architetture delle Ninfe di Chiara richiamano due stati psichici opposti, l’estasi maniacale della Ninfa e il lutto dell’acqua in cui sprofonda. La caduta della Ninfa, il suo declinare e sparire, sono il simbolo di un sonno invincibile, di un crollo della ragione a favore della contemplazione.

Osservando le singole fotografie, si resta pervasi da una percezione fluttuante, che mette in crisi ogni realtà univoca. Nel 1817 il grande poeta inglese Samuel Taylor Coleridge, autore della celebre Ballad of the Ancien Mariner, teorizza l’immaginazione poetica come un momento di sospensione della credulità. Occorre stupirsi e abbandonarsi al mistero come se ci credessimo, come se fosse vero. Così l’occhio di chi guarda queste Ninfe non deve mai chiedere un paesaggio definito, astratto o figurativo che sia, ma subire l’ipnosi cosciente di una forma in stato di metamorfosi. L’arte di Romanini è un’arte di soglia, dove qualcosa di familiare sfugge al controllo per diventare matrice di inquietudini, come accade in certe macchie di Victor Hugo, nate da fondi di caffé, che si trasformano in sismografie telluriche, movimenti di onde, rovine di castelli, come se assistessimo alla perturbante endoscopia di un’immagine. La fotografia – letteralmente “scrittura della luce” – vuole, in Chiara Romanini, essere simultaneamente luce e oscurità, corpuscolo e onda della materia visiva, sostanza fantasmatica del reale. E il reale è la magica suggestione di vesti, stracci, panneggi, che si sciolgono e sprofondano in un’acqua oscura, rifratte da specchi o da veli. Le responsabilità di un essere umano non sono soltanto le sue azioni coscienti, ma i suoi sogni. I sogni creano il reale assoluto, come teorizzava Novalis: la poesia di cui siamo capaci di portare il peso, che è bellezza e tormento.

La fotografa prova sensazioni simili a quelle del poeta russo Aleksandr Blok quando percepiva “un senso di malinconia per ciò che è terrestre”. Le sue infe provano questa malinconia. Ma, più che Ninfe, sono echi di quelle immagini semidivine, riflessi che ci parlano di un mondo interrotto da acque, veli, vetri. Come scrive Susanna Mati, delle Ninfe noi vediamo “vesti, chiome, filamenti vegetali floreali o meno, tutti ondeggianti e mossi da correnti d’aria o d’acqua; questi si fanno carico dell’elemento patetico, emozionale, nel momento in cui il corpo della Ninfa svanisce. A questa “storia di fantasmi” (per dirla sempre con Warburg), che è anche l’esito di una dissociazione molto profonda, si ispirano le suggestive fotografie di Chiara Romanini, scorze di scomparse Ofelie, meduse, ectoplasmi, che riflettono anche, infatti, quanto di effimero e spettrale può esserci nelle immagini e nel loro decorso… In queste fotografie, le vesti sono animate e disanimate insieme; animate per il movimento impresso, disanimate perché sempre più disabitate dal corpo; e tuttavia queste immagini riconducono alla memoria di una mitologia latente…”

Cosa potremmo aggiungere ancora? Che esiste, nelle fotografie di Chiara Romanini, un’ossessione di dissolvimento nel tessuto delle cose e dei corpi, un amalgama brulicante che si scosta dalla rappresentazione tradizionale dell’immagine e che neppure tiene più in conto la solidità di un corpo, di un muro, di una veste, ma esprime, con l’artificio di velature e opacità essenziali, la sofferenza organica di uno sparire delle cose dal mondo. Lacrimae rerum, direbbe Virgilio: le lacrime delle cose.

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