Morte di Don Giovanni nell’opera di Mozart
*Il testo è tratto da: Thomas Stern, Mes morts, Editions de l’éclat, 2019 (traduzione di Lucetta Frisa).


Nella penultima scena dell’ultimo atto dell’opera mozartiana, Don Giovanni e il Commendatore, mutato in statua di pietra, si sfidano in un duetto celebre (Pentiti! -No! – Sì! – No! – Sì!). Si affrontano violentemente come nel duello del primo atto, quando il commendatore muore trafitto dal colpo di spada di Don Juan, sotto gli occhi stupefatti di Leporello.
Ma – come la morte del Commendatore dopo una breve agonia cantata in trio in diminuendo – è musicale, così quella di don Giovanni risuona come una dissonante bestemmia. Il coro dei dannati lo richiama dal fondo dell’inferno, mentre il pavimento si schiude e l’orchestra sale, con crescente intensità verso l’apice finale. Quando il dramma raggiunge il suo parossismo, Don Juan smette di cantare per porsi davanti all’abisso a urlare, perdendo brutalmente la sua compostezza vocale.
Questo grido di don Giovanni mi è sempre sembrato tragicamente incongruo e anche tragico perché ,appunto, incongruo. Eppure cantanti che urlano, da Janis Joplin a Robert Plant o Mick Jagger, ne ho ascoltati senza mai stupirmi in tutta la mia vita di melomane. Ma alla fine del XVIII secolo non si urla quando si canta e ogni volta che sento il grido di don Giovanni ho l’impressione che la sua disperata veemenza si rivolga alla musica stessa.
Il grido di don Giovanni lo separa per sempre da noi, spettatori e amanti della lirica venuti per soccombere al fascino di un’opera. Don Giovanni, con quell’urlo, non è più dei nostri. Si esclude dalla comunità che lo circonda, come il suppliziato si esclude dal gruppo di quelli che lo guardano morire. Con questo grido di rabbia o di disperazione, il grande Signore Malvagio cade stonato là dove nessuno può fare nulla per lui, e soprattutto nessuna musica. Si poteva esprimere meglio la sua dannazione se non con questo artificio senza artificio? Mi riporta al colpo di pistola, a metà concerto, evocato non so dove da Stendhal.
Lo spavento perturbante che mi comunica questo urlo è lo stesso che provo. davanti alla tela che Francis Bacon, fa emettere a Papa Innocenzo X, aggrappato al suo trono precipitato nel vuoto. Anche Bacon assume nella sua arte una violenza diretta contro se stesso. Indubbiamente per ricordarci che è su di essa punta l’arte. La violenza è in agguato nel cuore dell’etimologia della parola “tragedia”, che nella Grecia antica ci rinvia al “grido del capro” sgozzato sull’altare di Dioniso.
Quando Don Giovanni muore urlando, l’arte non è più l’artificio di dissimulare l’assassinio rituale che è all’origine del canto, del teatro, del sacro, dei fervori religiosi in cui si cimenta la vita della collettività.
Appena don Giovanni porge la gola alla fine, emergono gli accenti gioiosi di un corale campestre. La vita si riconcilia con se stessa perché l’Uomo Malvagio ha pagato i suoi delitti. Si avrebbe torto a voler vedere un happy end di circostanza; senza la punizione dei cattivi la tragedia non eserciterebbe su di noi le sue virtù benefiche. E’ catartica, lo abbiamo imparato da Aristotele. Mette in scena una violenza che ci dispensa dall’esercitarla. Non avrebbe su di noi alcun potere se con lei non condividessimo l’antico gusto del sangue versato.
Thomas Sterm, giornalista e scrittore, pubblica: Thésée ou la puissance des spectres (Seghers 1981), Si tu ne m’aimes pas je t’aime (Flammarion 2019), Thomas et son ombre (Grasset, 2015), Mes morts (Editions de l’éclat , 2019).

