“Tutte le immagini sono opere di Nicolas de Staël

Rinnega, rinnega sempre; anche se dovessero volerci anni per arrivare a capire che ti sei sbagliato, rinnega sempre.
Certo, potresti farti furbo, e cominciare a rinnegare durante. Ma tu non sei così furbo.
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Resta pessimista, nonostante tutto, nonostante alla fine sentirai che anche questo scivolerà giù, via. Quella ragione che non ti danno gli uomini te la daranno i fatti, anche se non ti farà piacere, anche se, in fondo, avresti preferito avere torto.
Disprezza gli uomini. Solo un poco. Ma continua a farlo; troverai naturale che si affievolisca (e lo so, è ancor peggio). Non eccedere, giusto il tempo necessario a farti sfiorare dal disprezzo; tu che sei onesto sai che riguarda anche te, tu sai disprezzarti.
Per questo sei superiore. Proprio perché non ci hai mai creduto, neanche ora che lo vedi.
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Poi scoprirai che per non ferire chi ami devi avere pudore delle tue amarezze. Che l’amore ti è nemico.
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È degno di essere tuo maestro chi scrive veleni. E tuttavia conserva, specie con gli altri, inattaccabile, tutta la sua giovialità.
L’allegria che si nutre di amarezza. Coltivandola da un orto ornato di piante e fiori. L’allegria che non si nutre di illusioni. Quella vera, insomma. Per la legge della scarsità.
Certo, c’è anche quella dell’utilità marginale decrescente.
I bisogni, infiniti, sempre.
Ma tu lavora contro.
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Il massimo della vitalità: Scaldati il sangue al sole, alla fine dell’inverno. Non ti serve altro.
Temi l’invidia degli dei, non trascurare quella degli uomini (anche se non te ne importa un accidente).
Ritrova nei tornanti del tempo… Pardon: ritrova i tornanti del tempo. (Cos’altro vuoi trovare?).
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Quei momenti in cui per uno scarto di minuti che avanzano dal bilancio delle cose da fare, tutte le cure (come dicevano gli antichi) si affievoliscono, cessano; o più probabilmente un calo adrenalinico, un tempo morto tra assimilazioni e reazioni biochimiche, fra qualche causa e effetto, in cui a calare è il fondale e il teatro si svela finzione, e cala anche ogni barlume di senso.
Tu vorresti dilatare questa verità sul mondo e le cose? Farla emergere dal nulla che è l’unica verità, fare luce sulla verità del nulla? Sei così sicuro?
Ma non vedi? Non vedi che tutto quello che puoi fare è solo prestare attenzione all’ultimo sorso di tè, solo gettare uno sguardo alla luce del mattino?
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Passi ore e ore senza parlare a qualcuno, e tutto diventa gesti, tutto si centra sulle cose. Fare. Così dovrebbe essere – pensi. Così la vita. Ma è sempre troppo.
La vita è sempre eccessiva.
Quel senso di facilità, fluido, del tempo che passa alla svelta – un tempo non passava mai… una felicità delle cose (e immàginatele, per un attimo, tutte le cose, lì, che sorridono, non senza un che di comico).
Il credito della noia. Inesigibile.
Può un attimo ripagare una vita intera? Tu credi di sì.
Ora.
La promessa di non nominare più la vita. Non mantenuta. Tante e tante volte. Ma si può parlare d’altro?
Hai preso la misura delle cose? Smesso di urtarci contro? Si?
Basterebbe meno, e più lentamente. Ridursi all’essenziale.
Anche se c’è chi si riduce male, mai bene. Bene tutt’al più si è messi.
Le cose invece si mettono al meglio, o al peggio. Loro sì che ne hanno la possibilità.
Non puoi ridere bene. Perciò, sorridi ultimo.
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La complicazione dovrebbe essere considerata un crimine.
Perché in fondo le cose sono semplici. Questo ogni animale lo sa. Cioè non lo sa. Perché l’animale ha l’anima. Noi invece no.
Domandati invece come fai a reggere, sulle tue spalle così forti e semplici, tutto il peso, insostenibile, di una complessità falsa e ipocrita, pietra imbiancata a calce, o una verità, una semplice verità: il forte schiaccia il debole. Più facile di così…
*
La condivisione non è sinestesia. Te ne accorgi? Non stai dando qualcosa agli altri, la dai a te, insoddisfatto, o nel tentativo inconsapevole di fartela durare di più, o di riprovare il gusto di averla ancora quando ormai si è affievolita. È come dire «io sono con te», essere presenti quando non ci sei – la distanza, sì… Perché saresti uno sciocco a pensare che moltiplicando i linguaggi si risolvono i problemi di una umanità già in serie difficoltà con uno soltanto.
Ma poi, se tu fossi lì, non ci sarebbe comunque sinestesia. Non può mai essere. Cosa ti fa pensare che vedere, provare, vivere qualcosa nello stesso momento dia luogo a un sentire uguale?
Non hai sassi da lanciare, non puoi colmare la distanza, anche se infima, a cui ti trovi. Gli oggetti sensibili che lanci (oggetti culturali, sì, la riproducibilità dell’arte nell’era della tecnica…) assomigliano a sassi gettati in uno stagno in cui le rane non si accorgono delle onde concentriche, molto smussate. E tu dici «Io sono qui», più che altro rivolto a te stesso, perché sempre più, di esserci, te ne accorgi sempre meno.
*

L’aria fresca al mattino da una finestra. Spingiti oltre. Basta semplicemente andare.
Semplicemente? Sì. ora sì. Perché proprio ora? Senza alcun motivo? Sì.
È così che va? Tu pensi che tutto sia legato (così, dicono). E invece no?
Un mondo in cui tutto è legato da un unico incontrovertibile fatto: ogni cosa è sola. Lo puoi abitare?
L’aperto e il chiuso. Ecco una finestra. Guardati.
*
Camicie stese ad asciugare. Non guardare lo sporco e il pulito. Ma il moto dell’acqua, dell’aria.
Le foglie e il tempo. Sin da bambini.
Il tempo ritorna. Ma non se ti allontani dalla galassia. Forse dopo milioni di anni. Ma questo lo puoi solo pensare, non vedere.
Hai smesso di incollare foglie a pagine di quaderni. E di metterle tra pagine di libri?
Biglietti di bus, treni, aerei, concerti, ogni tipografia minuta. Segnalibri.
Le foglie, mettile prima in carta oleata, piegata a metà.
*
Vuoi sapere cos’è la felicità? Guarda i gatti. Guardali allungarsi, stirarsi rotolando lentamente senza perdere un briciolo della loro dignità, guardali prendersi il calore del sole, dove c’è.
L’affetto senza una parola. E galoppate sui prati.
Cos’è il dolore lo sai fin troppo bene.
Prega – è l’unica che ti concedo – che qualcosa resti sempre. Ma ce l’hai scritto in faccia. Sai che è così.
*
Amare un essere vivente. Contatto tra te e il mondo. L’umano e la natura.
Prima scopri di amare la natura, prima arrivi ad amare il mondo. Un passo – un balzo – enorme.
Ami la natura. Ma un essere vivente ti risponde.
Sei chiamato in casa: entri nel mondo. Non è più solo il tuo destino: da quel momento è vostro.
Ci sono dolori che sprofondano, abissali. E dolori che si estendono, si allargano. E poi, quelli in cui perdi ogni direzione.
Ritroverai l’orientamento, certo. Ma da quel momento in poi sai. Che (ti) sei perso.
(Tanax…). La morte è la medicina per la vita?
Riprenderai il cammino, la guarderai, non ora forse, più avanti, come una cosa naturale. Tua.
La tristezza sarà mai dolce? Te lo auguro.
Tocca la tua natura. Tra te e lei, il contatto. L’occhio, le mani. Soprattutto, ora, forse, le mani.
Vorresti che gli animali avessero davvero l’anima. Non solo nel nome.
Sei più che convinto che gli esseri umani, invece, no.
Come darti torto.
Sii, per una volta sola (perdonabile), ottimista; credi sino in fondo che quello che abbiamo in comune con gli animali (non è poco), ci salverà.
Il corpo, il sonno, la morte.
La vita. Nel senso di essere vivi. Il destino.


*
Che la vita possa avere più accezioni dovrebbe essere considerato un crimine.
Cerca il senso. Sapendo che è introvabile, a volte fermati. Forse è lui che deve trovare te.
Fatti trovare.
Scrivi con cattiveria, come uno scultore che fa calchi.
Dormi di più. Maledici la mancanza di sogni come la vera povertà.
Evita i sogni inutili.
Definitivamente: il modo migliore per comunicare è il silenzio. Protesta pure. Lo so, quella è comunione. Appunto.
Non potersi dire addio. Forse è meglio così. Non succede sempre così?
In fondo. Vivere sempre in fondo forse non è vita. O forse l’unica. Eppure è possibile. In fondo, l’unica cosa di cui abbiamo bisogno è solo l’aria.
Respirare. La vita visibile.
*
Di fronte alla vita e alla morte. Poche le cose che tengono.
Nessun discorso, teoria, niente concetti. Nessun riparo.
Semplicemente – e la parola ti ferisce, tagliente come nessuna lama – cade tutto ciò che non è primario e radicato, radici nodose per gli anni e salde, conficcate giù, avvinghiate a massi, per poi sprofondare, giù, ancora.
A fondo.
Non è tanto unicità, è carenza, scarsità. È il certo per l’incerto, e tu sai che non puoi permetterti incertezze.
La vita e la morte uniscono più degli affetti, dei silenzi, degli slanci, del comico brulichio dei sentimenti che da vicino sembra terremoto, da lontano tempesta, da ancora più in là, alito.
Bicchieri d’acqua.
Più dei silenzi. Tanto vituperati, così incompresi.
Le cose che contano. La morte, la vita, proprio quando non ci sono più.
*
Lìberati dall’amore, liberati dal bisogno. Macera il desiderio, fai fermentare gli spasmi.
Distilla sempre tutto. E non berlo. Non ci sono più dei, altari su cui sacrificare profumi preziosi. Posali da qualche parte. Profuma case, permea l’aria e i suoi moti invisibili.
Non per una purezza irraggiungibile, ma per rarefazione.
Ogni elemento. Tavola periodica.
Trasformazione. Decadimento. Chimismo.
Riduzione.
Lascia che sia il tempo a riaggregare. Lascia se puoi la vertigine del tempo infinito che ci vuole. A ritrovarti, ritrovare tutto. Quello che hai perso. Morendo, vivendo.


*
La confusione. La vergogna, il disorientamento, la sofferenza degli altri (come fosse tua – ma perché?), l’ambiguità, le incoerenze, le difficoltà. Di capire. (Tu, il grande empatico…).
Il dolore bello?
Il dolore utile, il dolore inutile, il dolore inferto, il dolore subìto, autoinferto, insensato, ingiustificato, sproporzionato, incongruente, inconciliabile, irrimediabile, irrisolvibile, illusorio, fuorviante, irrazionale, gratuito.
Sei stanco del dolore. Disgustato.
Qui, la tua grandezza. Lo rifiuti. Di darlo.
E temi. Solo il ricordo ti paralizza.
Perché ora sai. Non saprai mai. Se sarai capace di non darne.
Disgusto, disprezzo, per ogni redenzione. Attraverso il dolore, poi.
Il dolore semplicemente non ha senso.
E tutto ne è intriso.
Vuoi salvarti? Esci da te.
Ti allontani, e ti vedi. Di spalle. Contro il mondo, di sfondo.
Nessuno, intorno.
*
Accarezza tutto. Tieni tutto, invece.
La sola salvezza.
In pena. Timore: che non lo farai. Che non ce la farai.
*
E poi, come mossa da una ragione superiore, smetteva di aderirti addosso, e andava via, con un balzo.
Tu non sai mai quanto, quando. Vorresti essere così, nessun bisogno di sapere. Solo fare.
*
Il sentire animale.
*
Lo so come fai. La morte, a ogni difficoltà. Un nodo. Una morte che non arriva mai.
Puntuale.
Spezza il cerchio. Una buona volta.
Soprattutto, non cadere. Ancora.
Hai per caso appreso l’arte dell’equilibrio? Ma guardati.
La sofferenza alimenta la scrittura. Ti vedo. Vai in giro col lanternino. Se è vero che scrivere cura, tu vai a cercare la malattia per il piacere di guarire.
E come vedi non è vero.
*
Fermati. Fermati.
Una nostalgia è meglio del pentimento.
Hai così paura del rimpianto?
Suvvia.
Guarda davanti a te.
Trova la forza di conservare le cose. Fai in modo che, urtandosi, non si rompano.
Impara l’arte dell’imballaggio.
Comprende il coprire, riporre. Custodire, forse.
Il non uso.

*
Trova la strada.
L’antica tristezza. Malinconia. Che oggi chiami distacco.
È anche da te che vuoi stare lontano.
*
L’ossessione dell’unicità.
Ci sono dolori più forti. Ci saranno. Che neanche lontanamente immagini.
Non ti spaventano.
Ma il timore. Rovinare.
Allenta, riduci.
Rallenta il passo.
Lascia andare. Fidati della mancanza di volontà. La via e la virtù.
Stai.
Cammina su questa vita. Lungo la vita. La via.
Vieni via.
Lontano dal pericolo.
Fidati della delusione. Sta lì a indicarti la strada.
Tieni con te solo quello che sei capace di portare.
E invece.
*
***
Abbandonato lì.
Sul ciglio. Al bivio.
Smettere di parlarti.
***
A chi sto parlando?
Non ti ho mai parlato. Solo ascoltato.
L’enigma, se c’è, io non lo so, risolvilo. Tu.
***
La strada. Il sentiero. Il bordo, il margine. Ad ogni passo. Il cammino. I dislivelli del terreno. Alberi, prati. A volte in discesa.
Il cielo. Nuvole.
In silenzio sta ogni cosa.

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