
La filosofia di Giorgio Colli è da annoverare tra le più radicali che il Novecento abbia azzardato. Radicalità che può essere tuttavia misconosciuta se non si rileva il nucleo logico – in verità arduo – che le permette di volgersi verso le Upanishad, i presocratici e di dialogare in una forma inaudita con Spinoza, Kant e Nietzsche. La distruzione della ragione operata da Colli nasce da un confronto vertiginoso con Aristotele e fa prima convergere, quindi dipendere l’intero universo logico e ontologico elaborato dall’occidente verso la sapienza dei Presocratici e in generale verso la sfera del mistico. A partire della logica dell’oggetto necessario enucleeremo la necessità intrinseca della ragione di distruggere se stessa, in quanto essenzialmente impossibile. Va sottolineato che non si tratta di una triviale opposizione fra ragione e mistica. Se non si costringe la genealogia della ragione a una impossibilità logica – e questa è l’impresa di Colli che tenteremo di indagare –, la lotta fra ragione e mistica sembrerebbe impari: alla fumisteria di certa mistica – in realtà, rileva Colli, per la mistica reattiva, sognante e velleitaria, si dovrebbe parlare propriamente di semplice «oscurità»(1) – va riconosciuta la supremazia costruttiva della ragione. Ma se si rintraccia – e questo è lo spaventoso lavoro di scavo della Filosofia dell’espressione – il vulnus essenziale della logica, immanente e rimosso all’origine della filosofia, allora si apre qualcosa che somiglia alla breccia in una diga. Breccia che Aristotele avrebbe intuito e occultato: non sarebbe stata possibile né filosofia, né scienza, qualsiasi senso si voglia attribuire ad esse.
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Le «luci interiori» (2) di cui parlava Nietzsche a proposito di Gesù, «il sentimento interiore, l’attimo di Goethe, l’estasi di Plotino» (3) sono l’unica realtà: tutto il resto – ousia o logos – in un senso metafisico forse indistinguibile dalla dottrina buddista, è illusione: «Il tempo, lo spazio, gli oggetti, il mondo, la storia sono fuori dall’immediato e pura astrazione» (4): «Scopo vero e proprio di ogni filosofare è la intuitio mystica» (5).
Colli ricorda un passo del Timeo dove si distingue il divinatore dal profeta: il primo è l’invasato esposto alla visione; il secondo è l’interprete della visione, colui che la fa entrare efficacemente nel tempo degli uomini.
In questo senso la metafisica e poi la scienza possono essere considerate profetiche; il testimone che l’una ha passato all’altra sono interne all’ermeneutica della profezia (profezia metafisica, come verità assoluta; profezia scientifica, come soteriologia della tecnica).
La filosofia di Colli torna a misurarsi con il mistico ma, a differenza di ogni irrazionalismo, non lo pone al di là del labirinto del logos, ma lo scopre proprio nel «cuore sacro e indicibile» del labirinto, dove – forse per solo non uscirne – entra il divinatore.
NOTE
1. Cfr. G. Colli, Apollineo e dionisiaco, Adelphi, Milano 2010, p. 32.
2.F. Nietzsche, L’anticristo, nota introduttiva di G. Colli, versione di F. Masini, Adelphi, Milano 1970, p. 43.
3. G. Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 1969, p. 69.
4. G. Colli, Filosofia dell’espressione, cit. p. 50. 70 .
5. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884, testo critico originale stabilito da G. Colli e M. Montinari, versione di M. M.
*Il testo è estratto da: Lorenzo Chiuchiù, Res mystica. Critica dell’oggetto necessario in Filosofia dell’espressione di Giorgio Colli.
