Il testo è tratto dall’archivio del blog Imperfetta elisse, a cura di Giacomo Cerrai, mercoledi 13 gennaio 2010.

Giancarlo Majorìno:
Tra le ricerche di poesia nuove, la tua sembra, non soltanto a me, una delle più ricche; dovessi in modo trasparente motivare perché e interrogarti su questo, toccherei due punti: a) sente e sa che ogni parola, ogni verso, ogni decisione (cosciente e no) di scelta poetica devono risultare da una messa in gioco totale, non alleggerita né rimossa, neppure certo semplicemente canalizzata secondo maniere in uso; b) ha di bello e di brutto che sta come a un bivio: tra il lavoro di quasi tutti i nuovi poeti (il campo della scrittura non è quello della realtà; la poesia non ha origine dal mondo ma origina un mondo) e la domanda spesso ancora inespressa e malformulata di giovani sempre più numerosi (la scrittura deve comunicare; la poesia viene dal mondo e torna nel mondo)…
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Angelo Lumelli:
Davanti a una poesia c’era un patto molto semplice: che ci saremmo visti attraverso di lei, non in precedenza, anticipando, o a parole. Questo vuole dire che c’era un tempo senza margini e senza ulteriore recupero o nuova pace spostandoci nei luoghi della conversazione. La conversazione non era un luogo in cui poteva compiersi una verità o èssere portato a termine il senso di una cosa tenuto in sospeso, distolto o intimorito tra le altre intenzioni che producevano i fatti. Sembrava piuttosto, coincidendo con la durata dell’istituzione letteraria, il luogo dei raduni consolati, sotto quiete lampade, dove inutilmente forse anche la retorica chiedeva vero tempo nella sua affaticata ripetizione. Dunque collocata tra gli oggetti una poesia non poteva essere meno di un oggetto né un po’ prima magari, fìngendo di avere ancora tempo in sé, o solidale con il corpo, essendo noi con lei, come garanti, a intrattenere verità.
Tutto ciò dichiarava risentimento e. incredulità sia per il discorso che, dotato già all’inizio di futuro compimento, tentasse di spingersi, coltello intemerato, nel tempo e nei fatti, estorcendone il senso più vantaggioso e mentendo perciò, con nomi antecedenti, applicata corona sulle cose; sia che altrettanto premeditato e deciso volesse uguagliare a sé l’accaduto e viceversa, come fraterno per sempre e senza tradimento e in questo modo stringendo noi in una certezza prematura, spauriti commensali, sobillati a credere nella nostra verità, alla lingua che iniziava in noi, ravvicinata, calda tra le azioni. Cosi non ci andava bene; gli strumenti di questo conoscere, come fermi al bordo del campo, macchine immobili, lunghi colli delle gru, pronte a catturare tempo e cammino o anche inoltrate in mezzo forse, assicurando spostamento, erano un inganno: garantivano, con la loro presenza, la riconduzione in verso, la prosecuzione del discorso, la sua sopravvivenza in fervore; non scioglievano sé nel conosciuto ma si ingigantivano, grandi, impudiche alla fine, oscene garanti di una continuità.
Invece noi volevamo sentire gli intoppi; stare sul luogo non dello sguardo narrante ma in quello che divide sguardo da cosa, ogni volta impoveriti, per ottenere l’accadimento e non cadere nell’eloquenza. L’eloquenza era una camuffata predona, simbolo dall’accumulo, voce anticipante e già partecipe, confabulava la nostra uguaglianza in discorso rendendo per sempre innocua la diversità tra dire e fare. In alcuni casi forse era anche a fin di bene, era un patto, una conoscenza per volontà e ripetizione, o mantenerci uniti in un intento o non so. Io so che non potevo. Confesso comunque: talvolta fu desiderato un accordo, un rumore preesistente a ogni cosa, in grado di farmi passare, di mantenermi nella visibilità, una eloquenza della paura o della pace, perché le cose minacciavano, allora come rifugiati, l’intermedio parlante dei poveri, il riconoscimento al posto del grande gioco, la riconoscenza per l’immediato, anche per la responsabilità della gioia… Ti dico questo perché la domanda di poesia di cui tu parli mi sembra riguardare non tanto il consumo del prodotto finito da parte dei lettori, ma giustamente penso, la teoria che dovrebbe consentire un linguaggio felice. Allora il problema è vedere quale gioia è concessa a un significato, fin dove dovrà spostarsi per sfuggire alla sua tetra consunzione, un luogo imprendibile, veloce. Può ben essere che in molti aspettino, come buona lingua del conoscere, anche la poesìa. Il problema per me è che la poesia non sta aspettando nessuno. Non precede noi come nostro scudo o in testa alle cose aprendo il passaggio; nel fatto non c’è semplicemente la sua descrizione, l’esecuzione di un sapere attraverso la lingua: anche la descrizione è, a sua volta, un fatto totalmente in gioco che deve guardarsi alle spalle. La descrizione non è al sicuro. Non c’è alcuna conversazione in atto o aspettativa a cui riferire le nostre notizie che si volevano, bisognosamente, totali: di qua continua la terra, supponiamo di poter dire (la fantasia di un sapere riparato dal suo oggetto e dal suo ascoltatore, vera botte di ferro, il consumo gaudioso dell’informazione, il corridore di Maratona, fresche notizie, fresche brioches, stampa mattutina…).O non è questo il mio caso o non è questo il caso del genere poetico. Trovandomi invece, per quanto mi riguarda, come non connesso alla lingua, non manifesto in lei come quasi trascorrendo in parole, ma riconoscendo me come subdolo rispetto alla mia esistenza pubblica e parlata, nel senso almeno che mi trovo eccedente in confronto alla mia esteriorità, uomo delle trappole, alla fine, in attesa di ciò che lo porta fuori, allora collocato su questo punto, se mi metto in posizione di poesia, se si può dire così, è questo innanzitutto che viene mostrato: l’interruzione verso l’esteso, una esagerazione della pausa e del passaggio. Allora guardando dalla zona delle prime mosse, dalla dolce unità, dove non si può dire se muovendosi una parola era l’azione che si preparava, o viceversa avanzando un fatto la sua lingua che lo propaga, lunga ondulazione che si smorza senza finire (poi qualcosa avverrà, un altro qualcosa si dirà), da qui dove tutto sembra iniziare, anche l’inizio di una poesia, tutto questo luogo precedente appartiene al pensato non al fatto.
Di fatto una poesia può cominciare a parlare per una decisione eccessiva, una responsabilità totale rispetto alla lingua che si muove nei fatti. Non potrà più controllare le risposte, riprendere tempo in sé. Anche diminuendo il distacco, accostandosi, lasciandosi invadere o invadendo il tempo che la circonda, sì accorgerà che non è qui, nella maggiore o minore compagnia con le cose, la sua salvaguardia e la sua giustizia. È costretta a essere sempre un po’ più in là del linguaggio consumato. O spiccherà balzi, come fuori da sé, dimostrando la sua necessità e la sua paura, mezza falsa, mezza innocente, o velocissima sulla sua ruota veloce, ruotando figure, perché adesso finge tempo, contro la paura della diminuzione e dell’abbandono, un movimento che non cessa e che la mantenga al presente. e tu mi dici, con le tue osservazioni, che la tattica di spostamento lungo il filo della lingua è una povera guerriglia, come al cinema guardando gli indiani, un fuoco qui uno là, specchietti sul profilo delle colline (in un luogo che non si estende, allora tutto è rappresentazione), ti devo rispondere che ho proprio l’impressione di comportarmi così e che c’è fuga nella lingua, vagabondare, perché un luogo non è avvenuto e non ci contiene.
Tu mi dirai invece che tutto passa da cosa in cosa, che per ponti di lingua e di fatti una poesia è linguaggio che si aggancia, appena radunata in sé, per forza, ma chiamata e conosciuta da ciò che è stato nominato non si perderà?
Certo che ritorna, dico anch’io, ma dopo essere accaduta altrove. Quindi non è conoscenza sul vero suolo, giusta provvisorietà, accoglienza. Qui so soltanto che mi trovo all’inizio di una cerimonia. Tutto accadrà per la seconda volta, se una prima volta forse è accaduto, almeno come materia, tempo che voleva decifrazione. A questo punto non so quale teoria sia allusa in tutto ciò. Forse non ho voluto farmi prendere dalla sua, immaginata dolcissima e inflessibile, legge. O saprò che la teoria non vuole le mie poesie. Vuole altro, tutto, pone tutte le domande. Vorrà l’umiliazione delle forme; non vuole che mi concluda in loro, ma forma identica a ciò che si diviene, lunga come il tempo. Sarò stato cattivo, forse ho soltanto esclamato? (…)
