L’AUTORE INADEGUATO. Luigi Sasso

«Io non sono niente. Non valgo niente. Non posso niente. In me, la grande opera non si è realizzata. In me, l’universo ha perduto il suo tempo. Io non sono un piccolo incremento, un passo avanti». La posizione espressa da Valéry in questo passo dei Quaderni non potrebbe essere al contempo più esplicita e più estrema. Quelle parole hanno il valore e la forma di una sentenza, solo il bilancio, ridotto a una desolante constatazione, di una vita, sembrano infine stabilire un’equazione, la pressoché perfetta equivalenza di due termini, di due realtà: l’io da una parte, qualcosa di simile allo zero dall’altra. Valéry porta a un livello difficilmente superabile, nelle frasi citate, una condizione che non è difficile incontrare nella letteratura del Novecento, e su cui altri scrittori, seppure in maniera diversa, insistono: la sensazione di sentirsi inadeguati, ben al di sotto delle proprie iniziali aspettative, incapaci di portare a compimento anche la minima porzione dei propri sogni, persino impacciati nelle più banali operazioni quotidiane. Riesce a farcelo comprendere con assoluta evidenza Antonio Delfini in una pagina dei sui Diari: «Insomma sono il più ignorante dei giovani che esistano o che siano mai esistiti. Non conosco la grammatica; non so scrivere quello che penso; non capisco quello che leggo; non so di vocaboli e sempre mi tocca d’andare a vedere nel Fanfani; non so parlare e, a forza di voler tacere, mi sono ridotto che, quando voglio esprimermi, non faccio uscir di bocca che dei suoni incomprensibili da balbuziente. Tarà taratà. Taratà taratà taratà taratà; e questi modi di parlare sono i miei pensieri con la gente di fuori. Se vado in caffè e chiedo qualcosa, dico: mi ddnabbirr; (mi dà una birra); tanto è per me sacrificante il parlare. Se poi ho qualche cosa da dire, allora non finisco più di chiacchierare: e ciancio, e spiffero, e discuto e litigo; non mi faccio comprendere però pur parlo, parlo sempre, finché non mi sono persuaso che gli altri si sentano convinti che ho ragione. Anche se pubblicamente mi dànno torto, mi basta supporre che intrinsecamente mi diano ragione».

Certo, confessioni così spietate non mancano anche in autori di stagioni precedenti, per esempio in Carlo Dossi. E a volerne ricostruire più completamente la genealogia sarebbe opportuno risalire all’incapacità di vivere di Leopardi, alla balbuzie di Manzoni confessata in una lettera del 1860 a Emilio Broglio, al ridicolo annaspare dell’albatro di Baudelaire. Ma ciò che appare maggiormente marcato e nuovo, in tempi più recenti, e che dunque manca negli ultimi esempi fatti, è il riconoscimento da parte dello scrittore della totale insufficienza e inadeguatezza della propria opera. E’ l’autore, e non più soltanto l’uomo, a mancare clamorosamente il bersaglio, a ritrovarsi con la lucida consapevolezza (Valéry) del proprio niente, o al massimo con la sbalordita e autoconsolatoria illusione (Delfini) di aver persuaso, a dispetto di tutte le apparenze, il proprio sparuto e paziente pubblico.

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