*I testi sono tratti da: Alfredo Panetta, Ponti sdarrupatu. Il crollo del ponte, Passigli editori, 2022.

GENOVA
Pilastro n.1
Credo nelle parole non come fuoco sacro
ma come piante spoglie che,
inerpicate a rupi
da quel terreno povero
traggono nutrimento.
Accade a ferragosto a Genova in un lampo
che il fiato cerchi aiuto
la carne attizzi il fuoco il fuoco
invochi il tempo
che come un buco nero
ingoia ossa e menti.
In fondo
una scia d’azzurro squarcia
il cielo, e sento dal buio l’urlo
sovrumano di storie minime
sogni strozzati in volo
nel pantano.
Ma a Boccadasse
ho visto la pianta d’un asparago
crescere sopra il tronco di una palma
e a fianco un gelsomino
così profumato che
partoriva rugiada
a Mirêo, di Genova, operaio Amiu
*
GENOVA
Pilasthru n. 1
Eu criju nt’è palori no comu focu sagru
ma comu chjianti anudeja chi,
mpercicati ê timpi
nta ju terrenu povaru
cavanu civu bonu.
Succedi a Ferragustu a Genova nta ‘n lampu
ca u hjiatu cerca aiutu
a carni attizza u focu u focu
chjiama u temphu
chi com’un bucu nirgu
si nghjiutti carni e menti.
Jà gghjiusu na scia d’azzurru
spanza u cielu, e sentu du scuru a zala
supaumana ‘i storri nichi
sonna ffucati ‘n volu
nto pontanu.
Ma a Boccadassi
m’addunau ’i na chjiantina ‘i sparaciu
crisciuta sup’ò thruncu ‘i na parmara
e a hjiancu ‘n gerzuminu
accussì chjinu ‘i hjiarvu
chi sgravava acquazzina.
a Mirêu, thravagghjiava a Genuva, nta ll’Ami
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Così inizia Ponti Sdarrupatu. Il crollo del ponte, di Alfredo Panetta, (Passigli, 2021), un poema ispirato al crollo del Ponte Morandi. alle 11.36 del 14 agosto 2018, a Genova. L’autore ha deciso di non scrivere questo poema dall’esterno, come uno spettatore ammutolito dall’orrore del disastro, ma dall’interno, identificandosi con le vittime stesse, a cui restituisce voce nella resurrezione magica dell’atto poetico. In una sua risposta all’intervista di Raffaela Fazio Panetta scrive: «Come sempre le due lingue lavorano in collaborazione stretta; talvolta s’interrogano l’una con l’altra anche durante la fase di composizione. Ogni verso, ogni strofa deve funzionare in entrambi gli impianti linguistici (…). Scrivere in dialetto e scrivere in italiano significa suonare la stessa musica con due strumenti diversi, entrambi indispensabili». Per realizzare Ponti sdarrupatu Panetta, come sempre, usa lo scabro e ruvido dialetto reggioionico, che conferisce a tutto il poemetto una tonalità materica e potente. Scrive Giovanni Tesio nella prefazione: «Il senso profondo è quello di una voce che si assume il carico di tutte le voci, di un’oralità che mantiene la sua quota di aderenza al vero, e che questo ottiene con la parola che più la necessita e più la detta, vale a dire – con perfetta intesa – la parola dialettale». La conferma a queste parole ci viene data proseguendo la lettura del poemetto, pilone dopo pilone, vittima dopo vittima, Panetta ripercorre la tragedia come l’antico cantastorie una tragica cronaca del suo tempo. Il poeta ottiene, con la musica “di calcinacci, di terra, di grumi” (Pontiggia) del suo dialetto, quanto si proponeva: rendere materico il disastro. La sua lingua, impastata di suoni aspri, crepati, che grondano di lamenti non consolati, è trenodia di pietà che si solleva nell’aria, oltre le macerie conosciute. Proponendo un atto di denuncia e di dovere civile, Panetta restituisce voce, nella finzione poetica di un corale collettivo, a chi quella voce l’ha perduta, essendo morto in quel disastro collettivo. Ed è una voce cupa, martoriata, carica di risonanze viscerali. Chi ha perso la vita può essere risarcito dalla poesia, se questa si mette al servizio di quel dolore e non si mura nel recinto dello stile patetico. Lo stile di Panetta è assumere su di sé, nel proprio “cantare”, la voce immaginata dei morti. Si potrà obiettare che il poeta non scrive in dialetto ligure ma calabrese. E qui prende forma un effetto sconcertante: l’“altro dialetto”, apparentemente l’intruso, trova, nella sua materia linguistica ruvida e particolare, una scabrezza da invettiva universale. La lingua si intride di quella musica sorda e dissonante che è sintonica con la carne dei corpi offesi. Scrive ancora Tesio: «Qui, di fatto, parlano in tanti insieme alla voce del poeta che queste voci raccoglie e a queste voci dà voce… E parlano, infine, i superstiti in una comune voce di smarrimento e di desolazione, di rabbia e di confusione; con accenti che insieme alla materia tutta mi fa pensare a quanto questa poesia sarebbe piaciuta a Primo Levi…».
Così il poeta definisce il suo stesso libro: «Ponti sdarrupatu. Il crollo del ponte. Un libro sul Ponte Morandi che ha richiesto due anni di lavoro. 43 poesie, una per ciascuna vittima del disastro. Una piccola Spoon River (non è mia la definizione) in dialetto calabrese». Ponti sdarrupatu, oratorio drammatico e polifonico, è un coro di voci spettrali e non più vive restituite all’elementare giustizia della loro resurrezione; è la musica viva, assordante, furiosa, di quei 43 morti che non vogliono essere ridotti al silenzio dall’incivile civiltà che li uccise senza seppellirli, il 14 agosto del 2018, sul ponte Morandi, alle 11.36 del mattino.
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GLI OCCHI DEL NAVIGLIO
Pilastro n. 6
Fu così, un attimo e in un pugno,
l’assurdo che s’incarna.
Un’Hiroshima tra gli occhi
e lo stomaco che crolla.
Ed ora? (riuscii a pensare
sarò se sono stata
Dio o non Dio).
Lascio in eredità le mie scarpe
che odorano di Naviglio Grande.
A te, straniero il boschetto dietro casa
dove troverai la lince
che sono stata
e uova di serpenti
ristoro dei miei mattini.
Ometto la mia rabbia i momenti di euforia
(e la carogna che ce li fa
scordare, inesorabilmente).
Un grazie intenso
agli sguardi furtivi sul metro
e uno, tenero, alla vita
malgrado il suo vizio di strafare.
Nel buio si entra a testa alzata, sempre.
Lento il respiro, la mano destra al Tempo.
ad Angela, cittadina di Corsico (MI)
L’OCCHJI DU NAVIGLIU
Pilasthru n. 6
Fu accussì, n’attimu
e nta ‘n pugnu, u strèusu
chi si faci carni. N’Hiroshima thra occhi
e stomahu chi si sdarrupa.
E mo’? (mi fidà u penzu
aju ad èssari, se fudi
staciuta, Ddi o non Ddi).
Dassu ‘n ereditati
i mè scarpi chi dduranu
i Navigliu Randi.
A tia, foresteru
u voschettu arretu
casa, aundi trovi
a linci chi fudi
e ova ‘i serpenti
ristoru di mé matini.
Non dicu a rraggia mia
i momenti ‘i preju assà
(e puru ja carogna chi ndi faci
m’i scordamu, e non potimu nenti).
‘N grazzi randi a cu guardau
agli sguardi furtivi sul metro
‘i prescia nt’o metrò e unu,
tènnaru, a d’a vita
a malugradu u sò vizziu ‘i fari ‘i cchjiù.
Nto scuru si thrasi
a tes ta ajitta, sempi.
Lenthu u rispiru, a manu desthra o Temphu.
ad Angela, chi venìa ‘i Corsicu (MI)
