

I luoghi dove dormiamo, cura e traduzione dall’argentino di Monica Liberatore, postfazione di Marco Ercolani, edizioni Joker, 2022.
ANTOLOGIA DI TESTI
Il ritorno di Ulisse
Robert Lowell.
Vent’anni di assenza.
Dieci anni di guerra, altri dieci fra le onde;
i nemici morti e le imprese raccontate,
la nostalgia che rodeva le sue viscere
lascia spazio a una noia mortale.
I tavoli segnati da vecchi ammiratori
fingono le ombre silenziose nella sala,
e lui barcolla tra i vasi,
schiaffeggiando l’oscurità.
Scivola, ubriaco, su una pozzanghera; grugnisce:
Elbenor, Boliphemus, solo maiali tra le onde salmastre…
Sente l’eco delle sue grida.
Si sistema i capelli. Suo marito, il re, è tornato.
Ma qualcun altro nota la metamorfosi
imposta dall’ultima maledizione di Circe?
Non fu forse il porcaro, Eumeo, a guidarlo?
E ora pensa agli anni che le restano
con colui che un tempo amava.
Lei ha visto i delfini fuggire verso l’orizzonte,
e certe notti sogna un delfino che la strappa
dalle terribili rive di Itaca.
È solo un sogno, un sogno sognato in un porcile.
Non c’è più nessuno capace di costruire un delfino di bronzo
per liberarla dall’animale che ha divorato la sua giovinezza?
Un modo per spingere gli uomini a una nuova guerra?
**
L’errore
La pioggia cade come una rete…
Questo ho voluto scrivere e continuare dopo
con qualche riflessione personale
sulla semplice capacità dell’acqua
nel recuperare i ricordi, tracce di ricordi.
Eppure, al primo tentativo,
la rete uscì dalla mia mano trasformata in res
e allora mi soffermai su quell’errore involontario:
la pioggia cade come una res…
Non posso giustificare il paragone,
ma senza alcuno sforzo immagino
il suono finale della carne che precipita
verso un epilogo travolgente.
**
L’antico dono della profezia
Le previsioni meteo annunciano pioggia,
quindi preparo il mio equipaggiamento mentale
per la luce fioca che inonderà la casa.
Le lampade hanno gli angoli
e il vuoto necessario per guidare qualsiasi
rivelazione che, come una farfalla vagante,
decida di entrare nel mio ristretto campo visivo.
E poi mi siedo e aspetto.
Ma quando il cielo si oscura
e le prime gocce gocciolano sulle finestre,
la mia prevedibile immaginazione mi trasporta
in un film che potrebbe essere intitolato:
Avventure in Palestina…
Piove anche lì.
C’è un uomo morto.
Il suo sangue si mescola all’acqua
e non vedo nulla di diverso da quello che ho letto nei libri.
Tranne che per la mosca immobile su una coscia, identica
a quella che ora gira intorno alla lampada:
piccola, tenace annunciatrice di tormenti.
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Chiunque voglia abbatterti,
il tuo nemico,
verrà dal lato del sole.
Diffida della luce
e temi l’oscurità.
Lascia che i tuoi occhi vaghino
liberi nel cielo,
ma che il tuo cuore sia
oscuro e terribile
come un gatto morto.
La cosa più importante
si riduce a questo:
devi prevedere
l’arrivo del fulmine.
Solo allora vedrai
quello che ti è dato di vedere.
Falchi, uragani, chiaro di luna,
tifoni o trombe di Gerico,
lascia agli altri gli eufemismi
per esaltare le loro macchine;
custodisce in segreto
il nome della tua.
Non dire addio se decolli
né metterti in mostra quando atterri.
Il fuoco si sottomette alla terra
ed è un tuo diritto tornare ad esso.
Ciò che si distrugge nell’aria
appartiene all’aria.

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Una semplice complessità
di Marco Ercolani
I luoghi dove dormiamo è la più recente raccolta di versi del poeta argentino Diego Ignacio Muzzio, pubblicata nel 2022. Sorprende, in questi versi, la precisa “misura” di una visione che attinge con nuda sincerità al mondo reale. Cito la poesia eponima del libro: “I morti si accalcano per guardarci / nella notte all’interno di un’altra notte obliqua, incrinata. / Li sento scavare come talpe, mormorare / le ultime parole pronunciate in vita / in un ordine diverso. Ma se l’ombra semina il suo sonno / nei luoghi in cui dormiamo e sogniamo, / se loro, i morti, veloci come le nuvole / o incendi imponenti / si trovassero di traverso all’onda: / non ci sarà un modo per organizzare questa architettura assente? / un modo per ordinare le parole? / Ascolto il treno, al mattino presto, quando nessuno è / ancora sveglio. Viene da lontano, dalla mia infanzia, / carico di cavalli bagnati e libri gialli. / Questa è la tua casa, questo è il tuo corpo. / Qui abita il tuo spirito”. Dalla poesia di Muzzio traspare una vicinanza fisica al mondo dei morti, il desiderio tutto umano di “organizzare questa architettura assente”, di riportare in vita quanto una volta fu vivo. Lo stile è neutro, prosastico, narrativo, non enfatico: accompagna lo spirito delle immagini, l’originalità del pensiero. “Giardino dell’Eden. Posso immaginare l’albero, / l’uomo e la donna e anche il serpente / ma non Dio. Sarebbe solo una voce? Un elefante? / O apparirebbe improvvisamente fra i rami / come il gatto del Cheshire, per poi sparire / lasciando tra le foglie una spettrale / fila di denti, alcune parole misteriose? / Un cane non è pazzo. Torno alle ciliegie. / Gli alberi navigano nella luce, ma al calar del sole / si stendono di nuovo immobili come trampolini verticali. / Non ci sono bambini che ridono sotto le foglie. / O ce n’è solo uno: custodisce il suo giardino portatile nella memoria / e, attraverso anni di oblio, appare sotto un albero di limone / a ricordarmi l’importanza di ogni giardino”.
I luoghi dove dormiamo è un libro sereno, dove memoria e visione si accordano felicemente: il tempo della poesia è il ritmo di una vita che non smette di pulsare. “Gli alberi erano più verdi. / Pensavo a mio padre. / Nessuno aveva mai pensato a lui / in quel luogo così lontano dalla sua tomba. / Poi tornavo in macchina, mettevo in moto / e riprendevo il cammino. / Sul sedile posteriore mio padre / parlava per tutto il tempo, / ma non riuscivo a sentirlo. / Le mie orecchie erano piene della sua morte”. Muzzio trova la sua voce poetica in una pacata elencazione di scene che, descritte in dettagli reali, appaiono anche come sogni a occhi aperti, trasfigurazioni lievi della percezione.
Il tono medio di Muzzio, la sua luminosa trasparenza, non inventa poesie semplici ma organismi complessi espressi con uno stile semplice. Il lettore ne resta stupito, come in questa poesia, Carne, dove l’elemento simbolico e quello fisico si compenetrano. “Un uomo con mezza mucca sulle spalle / attraversa una strada sotto la pioggia. / Vestito di bianco, / piegato sotto la carne, lavora; / concentra la forza dei suoi muscoli vivi / per sostenere il peso della carne morta. / Dal punto dove mi trovo / sembra quell’angelo che devastò Sodoma, / e la bestia che porta un altro uomo / la carne che sarà pascolo del fuoco. / Uomo e angelo, bestia e uomo / possono confondersi, visti da qui, / e si potrebbe pensare a certe scene / come segni di un alfabeto oscuro. / Uomo e angelo, bestia e uomo / possono confondersi. / La pioggia e la carne possono confondersi, / anche nei loro ultimi gesti: / la pioggia / cade perché cade”. Il finale è esemplare, non didascalico. La parabola dell’uomo e dell’angelo si chiude con una pioggia non decifrabile, né simbolica né allegorica. “Cade perché cade”. Muzzio è poeta perché così gli suggeriscono le parole, questi “segni di un alfabeto oscuro” con cui si attarda nei minimi dettagli di una narrazione intima, unica, inequivocabile. “Ma quando il cielo si oscura / e le prime gocce gocciolano sulle finestre, / la mia prevedibile immaginazione mi trasporta / in un film che potrebbe essere intitolato: / Avventure in Palestina… / Piove anche lì. / C’è un uomo morto. / Il suo sangue si mescola all’acqua / e non vedo nulla di diverso da quello che ho letto nei libri. / Tranne che per la mosca immobile su una coscia, identica / a quella che ora gira intorno alla lampada: / piccola, tenace annunciatrice di tormenti”. I libri sono pregni di vita come la vita è pregna di parole. Muzzio ci dona questo difficile equilibrio: catalogare l’impossibile perché l’impossibile è necessario. “In due anni come bibliotecario / ho inserito novemila cinquecento titoli nel sistema. / Non solo romanzi ma anche/ libri di storia, geografia, dizionari, / grandi libri illustrati, libri di cucina, // un po’ di filosofia e psicologia, / alcuni di religione, / ma la poesia, oh Ezra, / i libri di poesia sono stati davvero scarsi. / La poesia scompare dagli scaffali / come gli elefanti del pianeta di Platone. / Perché c’è qualcosa di esecrabile nel leggere poesia / ma molto peggio è scriverla; / tra le due proposizioni / nostra sorella, la luna / sale sul monte Taishan”. Esecrabili, scrittura e lettura, quando ci discostano dalle pieghe del mondo, dai “luoghi dove dormiamo”.
Muzzio ci regala la consapevolezza che, per scrivere una poesia, non è necessario sprofondare in ragionamenti eruditi e difficili ma vedere con i propri occhi e pensare con il proprio cervello, coraggiosamente, sì: sapendo di essere maestri della parola che descriverà i conflitti e i combattimenti ci hanno marchiato per sempre il nostro viaggio personale. “Ho avviato una guerra con il reale e il conflitto / occupa ogni minuto di ogni mio giorno. / Mi chiedi cosa ho dovuto sopportare / per arrivare dove sono. / Non lo saprai, né tu né gli altri, perché non si può dire. / La mano che mi bruciai increspandomi la pelle / è più insensibile dell’altra al freddo e al caldo. / Anche la mia anima è passata attraverso il fuoco: / ci si può meravigliare che non si scaldi al sole? / Qua e là i fenicotteri fanno dei buchi nel fango / dove lasciano un uovo bianco, a volte due. / Poi prendono il volo e si allontanano verso il mare, / sempre verso il mare”.
Muzzio, in questa sua raccolta di versi, guarda il mondo e se stesso con lo stupore di sempre, trovando grazie alle parole un ordine momentaneo e felice prima dell’”imminente caduta della notte”. L’architettura delle poesie è traversata da un’evidenza abbagliante. Nessun attimo della sua scrittura è decorato da vaghezze liriche: tutto è nitida espressione, potenza di sguardo, semplice complessità. “L’ombra della foresta / è una barca sull’acqua invisibile. / Io sono qui sotto. Attendo. / La luce entra nel ghiaccio / come la pioggia in una gabbia. / Sono in volo. Una freccia. Colpirò il bersaglio”. La lezione del grande poeta argentino Roberto Juarroz in Poesia vertical è evidente: una parola neutra e silenziosa, che ha la rigorosa magia di una precisione assoluta. “Solo l’assenza rivela il reale. / Il reale non è altro che l’assenza di un’assenza. / All’ombra degli alberi le nostre ombre / sembrano scomparire, eppure sono lì: / precise come le lancette di un orologio / e più veloci del pomeriggio che tramonta”. Muzzio pensa la natura delle cose da filosofo e da narratore, ma lasciando che a prevalere sia sempre la trasparenza diretta dell’immagine, la sua indiscussa evidenza plastica: “Diffida della luce / e temi l’oscurità. / Lascia che i tuoi occhi vaghino / liberi nel cielo, / ma che il tuo cuore sia / oscuro e terribile / come un gatto morto. / La cosa più importante / si riduce a questo: / devi prevedere / l’arrivo del fulmine”. Poeta di rigorosa chiarezza, descrive l’apparizione di un cervo sul sentiero come animale reale e come simbolo: “Tornerà domani? Troverò nel sonno / il movimento in grado di trattenerlo? / Come posso spiegare a mio figlio // che tante cose dipendono da una poesia?”.
Leggere questo libro fa tornare in mente un aforisma di Wallace Stevens: “Poesia è salute”. E, a conclusione di questa prefazione, posso affermare che incontrare l’opera di Diego Muzzio significa proprio amare la salute della poesia, la chiarezza contro le tenebre, senza mai attenuare una visione del mondo che è spietata e inconsolabile. “Nell’oscurità brillano e alla luce del sole sono / segni, virgole che sospese nel vuoto, punti di ellissi / che segnano la caduta di un giorno rovinato”.
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Diego Ignacio Muzzio è nato a Buenos Aires nel 1969. È un narratore e un poeta. Attualmente vive in Francia. Nel 1991 ha pubblicato il suo primo libro di poesie, El hueso del ojo. Nel 1996 ha vinto il Primo Premio di Poesia del Fondo Nacional de las Artes per il libro Sheol Sheol, pubblicato nel 1997 dal Grupo Editor Latinoamericano. Nel 2000 ha ricevuto il Primo Premio ispano-americano di poesia Sor Juana Inés de la Cruz per Gabatha, pubblicato in Messico dalla casa editrice Práctica Mortal nel 2001. Ha inoltre pubblicato: Hieronymus Bosch (Ediciones del Dock, 2005), Tratado sobre la ejecución de animales (Honoarte, 2008) e El sistema defensivo de los muertos (Hilos editora, 2012). Come autore di letteratura per bambini e giovani adulti, ha pubblicato La asombrosa sombra del pez limón (SM, 2005), Un Tren hacia Ya casi casi es navidad (SM, 2008), El faro del capitán Blum (Pictus, 2010), La guerra dei cuochi (Estrada, 2011), Lobo Buenaventura y los tres chanchitos (SM, 2014). La raccolta poetica Los lugres donde dormimos tradotta nel 2022 dalle edizioni Joker, è del 2020. Ha pubblicato anche narrativa per adulti: Mockba (Entropía, 2007), Las esferas invisibles (ibidem, 2015) e Doscientos canguros, (ibidem, 2019).


