UNA VOCE IMMEMORABILE. Per Lorenzo Calogero

Lorenzo Calogero

Lorenzo Calogero nasce a Melicuccà nel 1910, in provincia di Reggio Calabria. Interrotti gli studi di ingegneria, si laurea in medicina, ma esercita saltuariamente la professione, prima in Calabria e poi in provincia di Siena. Si dedica con crescente interesse alla filosofia e alla letteratura. Pubblica a proprie spese alcune raccolte poetiche in case editrici minori: Poco suono, Ma questo, Parole del tempo. Cerca di stabilire contatti con poeti (Betocchi) e case editrici (Einaudi) ma senza successo. Lascia la professione medica e si dedica totalmente alla scrittura. Nel 1955 ottiene l’appoggio e l’amicizia di Leonardo Sinisgalli, che tenta di promuoverne l’opera scrivendo una prefazione alla raccolta Come in dittici e segnalandolo al Premio San Giovanni che gli viene assegnato nel 1957. Il poeta muore in circostanze misteriose, forse suicida, nel 1961. Giancarlo Vigorelli, nell’aprile dello stesso anno, a pochi giorni dalla tragica scomparsa dell’autore, pubblica i suoi versi nel numero 8 di «L’Europa letteraria».

Leggiamo, da quel numero della rivista, alcune pagine sul poeta, scritte da Leonardo Sinisgalli, e intitolate: Un caso di poesia fra Campana e Artaud: «Un’opera così serrata – migliaia e migliaia di versi – non può essere il frutto di illuminazioni improvvise, non si giustifica come una scommessa o un miracolo. Il poeta ha rifiutato i soccorsi delle retoriche più fertili: l’incanto del numero, della simmetria, degli accenti, gli attriti degli oggetti, delle occasioni, della memoria. Si è fidato soltanto delle sue capacità espressive, di una vitalità insita nel linguaggio (la “vita acre dei segni”), per cui l’arabesco, che è senza dubbio l’acquisto più glorioso delle pagine più aperte, non è mai nomenclatura o contorno, ma diventa, esso stesso, più che strumento, sostanza spirituale».

Dopo la pubblicazione postuma delle Opere poetiche presso l’editore Lerici (il primo volume esce nel 1962, il secondo nel 1966), e dopo un rapido fiorire di giudizi poetici positivi o entusiasti (da citare, tra tutti, Montale, Luzi, Caproni, Sinisgalli, Solmi, che salutavano in Calogero un genio misconosciuto della poesia italiana), l’autore di Come in dittici rapidamente ritorna nell’ombra da cui era emerso e la sua opera in versi appare di nuovo introvabile, come le sue giovanili plaquettes Parole del tempo (Siena, Maia, 1956) e Ma questo… (ivi, 1955). Ma da alcuni anni si sono moltiplicate antologie e omaggi al poeta di Melicuccà, segnalati da un aggiornato sito web, e l’editore Donzelli sta pubblicando diversi suoi libri (Parole del tempo, Avaro nel tuo pensiero). Lorenzo Calogero, anche se talvolta “relegato nel ghetto della malattia mentale” (Stefano Lanuzza) resta sempre un “poeta per poeti”, uno scrittore che non ha esitato a trasformare la sua intera opera poetica nella modulazione musicale e reiterata di un nulla interminabile, senza altro argine che una parola dai confini fluttuanti. “Perciò scrivo/ colla tacita mano/ rivolta ai sonni”.

Lontana dal discorso immaginifico di un Dino Campana, a lui vicino per potenza analogica, la poesia di Calogero vive nel regno di una follia fragile e quasi muta, dove le melodiose assonanze dei versi sono gli unici rifugi consentiti a una mente perturbata, quasi sempre in stato di narcosi, da farmaci o da caffè. Scrive di se stesso Calogero: «Le sole cose che per me valgono di uno scrittore sono gli estremi attraverso cui si muove il suo pensiero».

Il poeta abita questo flusso ininterrotto e instabile di parole, dominato da un pensiero vago, smemorante, amniotico, dove ogni poesia si autocancella per creare quella successiva, all’interno di una estenuata e monumentale incompiutezza. “Questa è la voce/ che si ripete da tempo/ tuttavia immemorabile/ in me”. Alla fine, dentro un fluire verbale che cerca di essere visibile mostrando i nodi indicibili del linguaggio, il poeta decide di “sopravvivere al fallimento mettendosi a morte” (Lanuzza) e vagabonda fra i versi, alla ricerca della sua fine terrena.

La storia personale di Calogero, che è vicenda esistenziale di dolore e disagio psichico, viene usata dal poeta non come dato biografico, bensì come suono fra gli altri suoni, leitmotiv a cui ancorare i ritmi della poesia perché non si disperdano. La sua vita gli consente appena che siano dicibili i suoni delle parole che lo hanno visitato e consolato. Calogero non fa mistero, con la lieve compattezza della sua opera ripetitiva e proustiana, aliena da qualsiasi frammentismo ermetico, di essersi riservato per sé, nella storia della poesia italiana, con il suo flusso torrenziale di versi, il ruolo di fantasma.

Esaltato e delicato cantore di una materia lavica e irrefrenabile, non avulsa dai luoghi comuni del linguaggio poetico, Calogero non appare mai, in nessun punto della sua opera, in modo circostanziato e preciso, come io. Non esiste probabilmente un solo verso in cui sia riconoscibile la sua identità umana e biografica. Le poesie, che scrive come in stato di semiveglia, sono l’opera di una persona neutra, anonima, vissuta in uno stato poetico continuo e indissolubile. Pur esibendosi senza vergogna nel teatro delle sue emozioni, Calogero non esiste. È e rimane ombra. Un attivo sopore occupa i suoi versi, che ci regalano momenti supremi di vertiginosa dolcezza, di rapimento assoluto. La parola, in lui, non si “ferma” mai, non trova i confini giusti, deborda. Non possiede mai del tutto la sua cifra, la sua struttura. Sfugge a se stessa e al suo artefice, e nella memoria del lettore resta un pulviscolo, quasi che migliaia di poesie siano state scritte e riscritte solo per apparire come una lunga “scrittura sull’acqua”, solo per annullarsi l’una nell’altra, indistinguibili l’una dall’altra, perché tutte simili, tutte composte nello stesso anelito di una creazione ininterrotta, reale e sur–reale, che non si ferma nella sua lunga piena. I versi di Calogero, a differenza delle poesie lapidarie e conclusive di un Montale o di un Caproni, sembrano già pronte a non venir più ricordate da chi le ha lette. Effimere ed extra-ordinarie, non hanno l’autorità del monumento e l’icasticità del frammento: sono flashes impressionisti, accorati e straziati richiami, melopee che si incrociano, si sovrappongono si confondono. Nessuna poesia vuole delinearsi con chiarezza, come nessun giorno ha l’ambizione di essere ricordato più di un altro. La vita prosegue nel suo flusso e il poeta può solo stare lì, appena vivo, a farsi scuotere dalle parole che la vita gli detta: “Erano le tenebre slogate. Un punto/ fermo erano fuori”.

Calogero ci mostra la sua unica sensazione: nascere e morire in modo favoloso a ogni singola poesia (il poeta voleva intitolare la sua intera opera poetica Città fantastica). Il canzoniere calogeriano, simile per certi aspetti al poema ininterrotto eluardiano, potrebbe essere composto di dieci versi, di cento poesie, di migliaia di sillogi. Non è esauribile e resta impossibile, in quanto poesia che tende a ripetere se stessa all’infinito, luce che si affanna a moltiplicarsi in un numero inverosimile di riflessi per potersi finalmente contemplare. Calogero non vuole imporre un repertorio di testi significativi, buoni per una bella antologia scolastica: la sua vocazione – il contrario di qualsiasi ambizione – è quella di farsi piovere addosso suoni diversi, sviluppati in un flusso di parole, e poi disporli in versi, in modo allucinato e incantato, esatto ma astratto, sensuale e disperso. Sopraffatto da una sorta di ipnosi, l’artista sembra dimenticare la poesia che sta scrivendo nel momento esatto in cui la sta scrivendo: “Un suono bisbigliato era di quiete/ e, sbagliata la tua gioia,/ rapida fuggì chiusa dentro un’ala/ e sola”.

Non è un caso che Amelia Rosselli sia stata intrigata da questa poesia snervante, anomala, interdetta, elusiva, che utilizza le parole dell’immaginario poetico per non essere mai definita da nessun linguaggio dicibile. Nel suo saggio Un’opera inedita di Calogero e la corrispondenza letteraria Amelia scrive: «Solo ora molti giovani si chiedono quali formule vi fossero nascoste dietro a uno stile nuovo non facilmente classificabile come di “scuola ermetica”, e quale fosse la reale ambizione d’un medico di provincia così disastrato nei suoi insuccessi presso gli editori e anche sul piano umano, ammalato, non sposato, isolato e apparentemente anche ammalato di nervi al punto tale da tentare due volte il suicidio, sia da giovane che in fine». E cita alcuni suoi pensieri di poetica: «Gli estremi di una parola sono condizionati da estremi di un sentimento a volte diversissimi e che sono quelli entro i quali si avventura il discorso […]. …Nessun realismo o neorealismo o altro del genere è possibile, in termini veramente poetici, senza l’immaginarietà originale della parola».

Restare appena dicibile praticando una scrittura incessante e interminata, composta di quella “immaginarietà originale”, è sempre stato lo scopo, forse segreto anche a se stesso, della poesia di Lorenzo Calogero (M.E.).

*Il testo è tratto da: SUD I POETI Volume Undicesimo a cura di Bonifacio Vincenzi, Macabor, Francavilla Marittima, 2022.

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...