Da: Marco Ercolani, Fuoricanto. Note di lettura per alcuni poeti contemporanei, Campanotto, 2000.

“Ma io la poesia me la parlo,
me la porto a letto, ci faccio
la frittata, un pollo, una romanza…”
Sono versi che traggo dallo sterminato laboratorio degli inediti di Lorenzo Pittaluga. Ed è un’appassionata dichiarazione di vicinanza fisica alla poesia, scritta da un poeta che ha abitato con disagio il suo corpo e la sua mente; le parole, per citare un altro suo verso, sono fatte del “sugo delle parole che scrivi”. In uno dei suoi rari appunti di poetica Lorenzo scrive che la poesia è “uno stato di transe” e traversa un io che è “ebollizione di stratagemmi” e “vecchio disco jazz”. Da un lato “sigla di fuoco… spire di fuoco per parole e saliva” e dall’altro “conquista per la pietà degli occhi”. Per riprendere le sue stesse parole la poesia è un “progetto di veglia con manovra” – dove si dice con quanta fatica venga vissuta la veglia a cui è costretto il poeta per dare forma – “progetto”, “manovra” – a versi nati nella transe del sogno e nella sospensione della follia. Cito ancora, altri due versi:
“Teoria del volo dove balcone e lima:
combattere sul fronte dei poeti”
La poesia di Pittaluga nasce da un’incessante affabulazione sospesa fra sogno e sentenza, fra scheggia di visione e rispecchiamento di dolore, fra volo liberatorio e combattimento terreno. Nel tentativo di trovare questa difficile forma congela lo spazio, azzera il tempo, ricicla con monotona implacabilità immagini ermetiche e surreali che, timbricamente, mostrano una ostinata, singolare monotonia. Velocissime nella sintesi analogica che le produce sono, al contrario, lentissime e rituali nel loro affiorare dalla pagina:
“Simile catena
la lega al centro –
si fa parete”
Così, in questi versi ttatti dalla seconda raccolta postuma, La buona lentezza, il simbolo della prgionia diventa mattone di costruzione, garanzia di centralità, ipotesi di edificio.
“Province del senso
ostacolo alla vicinanza”
La vicinanza della parola al poeta è così intima da distanziare il senso del discorso come una provincia remota.
“Poesia – origine
che trattiene la piena…
Se annotta solo ora
non importa. No. Nulla”
Lo psicoanalista Paul-Claude Racamier osservava: “il delirio è le lacrime dello schizofrenico”, e forse per Lorenzo la poesia è proprio questo: un’allucinazione-lacrima espulsa nella pagina grazie alle parole. Come scrive Sinisgalli in Furor mathematicus: “Si potrebbe dire che alcuni versi sono stati scritti dal cadavere del poeta come certi testamenti apocrifi. Il poeta deve fingersi un universo immobile, un mondo vuoto, una piaga che confina col silenzio e col buio. Il rumore della penna sula carta deve bastare a scuotere I fantasmi”.
Pittaluga non compone poesie che restano nella memoria con versi precisi, con pensieri poetici coerenti, ma costruisce “macchie di parole”, capricci mutevoli e bizzarri, abitati per caso dal linguaggio. La sua scrittura sembra ininterrotta e inconsumabile. Lorenzo potrebbe scrivere in mezzo ai rumori più assordanti, trovando la sua voce anche fra mille parole, immerso nella sua “serendipità”. In un romanzo di Horace Walpole il principe di Serendip è quel favoloso scienziato che, solo casualmente, fa scoperte di eccezionale importanza. Così Lorenzo, autore di versi ermetici, non immuni da virtuosismi linguistici e manierismi fonetici, è anche costruttore di sorprendenti edifici sintattici che, proprio dal loro impossibile equilibrio, traggono, come bizzarre sculture di vetro, una solidità indefinibile.
Sonnambolica e grottesca, questa poesia si dipana con una sintassi telegrafica ed ellittica, che abolisce i nessi logici. Ma il discorso continua ad esistere, in filigrana, alla ricerca di una comunicazione costante sebbene affannosa, in bilico fra stralunatezza e cantabilità. Pittaluga scopre come in transe un senso affettivo, lo scopre nelle parole, come un tesoro dimenticato. Qui si svela la sua piena originalità: quando, da un tessuto poetico criptico, ricava una sentenza o una confessione intima – “sino a cogliere da questa frammentata scrittura / la voce che apprendi nell’interesse che tu vuoi”. Qui la sua poesia diventa stupefacente, perché dalla trama fluttuante e imprevedibile di una lingua in costante metamorfosi, si staglia una parola limpida e decisiva, simile alla forma di certe stelle dentro una nebulosa galassia di sensazioni.
Disincantato nello sviluppo onirico delle immagini, sorprendentemente naif in alcuni arcaismi lessicali, impudicamente sentimentale in certe appoggiature della voce, Pittaluga non è mai immerso totalmente nella materia linguistica, nella sicurezza della soluzione poetica, nella versificazione risolutiva, ossessivamente convinto che la “necessità” di creare domini sull’esemplarità del testo compiuto.
Orgogliosa della sua ermetica compattezza verbale, la parola di Lorenzo insegue quella sosta segreta che il flusso ininterotto dei versi le nega perché non può ancora mostrarci, se non per rapide ellissi, il silenzio di quella tregua: la tregua è la remota possibilità di una vita reale, temuta come catastrofe, isolata dentro il guscio di una sintassi stravolta, oscurata da una scia di parole straniate e astratte, simili a una cortina fumogena.



