
Il libro d’esordio di Carlotta Cicci, Sul banco dei pesci (L’Arcolaio, 2022, prefazione di Alberto Bertoni), è davvero un’opera d’esordio. Artista visivo, specificamente videomaker, Carlotta trova, alla sua prima raccolta di versi, una flessuosità ritmica che rende le poesie del libro frammenti crudeli, misteriosi, compatti, cantabili: intrisi, oserei dire, di una semplice, disperata, inevitabile cantabilità. (“in un passaggio / di vortici e soglie / con l’anima capovolta / in un improvviso odore / di fieno e sale / nel delirio / lei nasce // il suo respiro / come una carezza / assoluta // un suono / piccolo”). Bertoni osserva, nella postfazione, che questo libro innova la percezione del linguaggio: “montaggio dinamico e variegato di fotogrammi che lasciano alla fine della lettura una sensazione di attività cooperante e soprattutto di libertà reciproca”. Io aggiungerei: questi versi non sono pensati come versi autonomi di singole poesie ma come strutture cangianti di una cantata profana, fra tragico e sacro, radicata in una straniata “pressione” della psiche a contagio col “garbuglio del mondo” (Bertoni).
Suddiviso in quattro sezioni(“La sentenza”, Bestie caute”, “Tunnel”, “Stanze deserte”), il libro racconta, con echi surrealisti e secche sequenze metriche di versi brevi, un viaggio iniziatico di conoscenza/sperdimento/spoliazione dell’io. Naturalmente, ogni poeta ci comunica sempre il suo personale sperdimento. Ma c’è chi lo fa dall’esterno, come se sviluppasse teoricamente un tema prima di trascriverlo in versi. Nulla di tutto questo accade in Carlotta: la sua poesia, che per necessità non appartiene neppure a lei scrivente, la nutre dall’interno, come la trascrizione fisica, nelle parole, di un potente terrore psichico, che dal linguaggio viene appena placato: “cerco un appello / cerco la mia faccia // mi manco // senza pericolo / senza inventarlo / è calma / è sevizia”; “devo difendere il silenzio / tornare dove le allodole / fanno i nidi / dove la vita smarrisce / nella pazienza del tutto // devo cercare la sua voce / così un uccello mi segnerebbe / il petto // spalanco la bocca / scelgo di coprirmi il volto // schiantare / voglio schiantare”). Si potrebbe parlare per questi versi di epifanie, se la parola non fosse fin troppo abusata. Ma occorre dirlo: di epifanie qui si tratta, di fessure visionarie dove è abolita la punteggiatura ma non il ritmo, e che rivelano l’immediato riversarsi della percezione in poesia, gettata “sul banco dei pesci” senza mezze misure, fra odori, soprassalti, brandelli di preghiere (“latente / pregiata / rara / come un cervo bianco / eludi tu che resti”), in un campo perturbato di emozioni e di polifonie ritmiche, alla ricerca della parola adeguata, la più nuda possibile (“la mia parola marciva / nelle tue parole perdute / nella spirale inattesa / nella misera fine”).
“Zona disforme” è il titolo del lavoro, a quattro mani, che Stefano Massari e Carlotta Cicci hanno intrapreso come teoria del “fare poesia” in questo tempo: un progetto utopico, multimediale, lacerato, alla ricerca di quell’anomala bellezza di cui i veri poeti sono assetati e dipendenti. Di questa “zona disforme” la poesia di Carlotta è uno degli emblemi più autentici. (M.E.)

Antologia
Cammino in una gabbia
che non attende nulla
un enorme ventre
senza acqua
senza bianco
il ferro mi anniente
non c’è cerimonia
non c’è potere
non c’è beatitudine
non ci sono i ladri
e i giovani
nessun segreto
sembra il letargo dei custodi
è tardi anche per i mostri
**
Incarno un colibrì
occorre rederlo fratello
ma ho perso il paesaggio
ho perso l’acqua
il sangue mi è sfuggito
tutto è già accaduto
anche tu domandi
mentre spietata
perdo vigore
mi lecco le ferite
chiedo asilo
tra sublime
e immondo
**
Nei silenzi vicinissimi
ho la bocca macchiata di reato
rigo muri col pollice
scortico tavoli e sedie
mi sposto di continuo
tocco fondi
riemergo
sola sono tutta mia

Carlotta Cicci, videomaker, illustratrice, fotografa, nata a Roma nel 1984, vive a Bologna. Ha curato e realizzato progetti video e documentari (www.disforme.net). Sul banco dei pesci è la sua opera prima in poesia.