MOVIMENTI DI PENNA. Lucetta Frisa

*Il testo è la postfazione a: Henri Michaux, Sulla via dei segni, a cura di Lucetta Frisa, Graphos Percorsi, Genova, 1998.

I primi testi di Michaux -da Mes proprietés a Voyage en Grande Garabagne, da Lointain intérieur e Un certain Plume a Au pays de la magie- ci consentono, come lettori, di vivere un’esperienza non comune: assistere a una ripetizione di un rito che potrebbe riassumersi brevemente così:una voce neutra, dal timbro tranquillo se non impassibile,narra, in modo minuzioso e slontanante, di universi “altri”, attraversati da esseri più apparentati a una flora e a una fauna marina che alla specie propriamente umana o a quella che, grazie alle lenti potentissime di un microscopio elettronico, possiamo scoprire sotto l’erba o la sabbia. Queste narrazioni o cripto narrazioni – in forma di frammento, riflessione, testimonianza – registrano avvenimenti enigmatici che nessun chiave simbolica è in grado di interpretare. Sigillati nella magica oltranza della loro natura visionaria, quei testi si rivelano come microcosmi ”surreali” di un mondo ulteriore, mappe utili a percorrere terre invisibili, o a essere decifrate da passeggeri inesistenti. Né poesie né racconti, gli scritti di Michaux oscillano tra soliloquio e aforisma, a volte sembrano oracoli o formule propiziatorie, a volte pagine di diario di un entomologo decisamente folle. Li accomuna il non essere mai appagati da una forma definita,se non quella della cronaca frammentaria e tutta pervasa da una fredda ironia.

Come un Luciano di Samosata, il cui mondo grottesco e smagliante si è disseccato, come tutti i grandi utopisti con le loro luminose e improbabili città, isole e continenti, ridotte in polvere, o come Gulliver che dopo aver rovesciato in tutti i modi il suo cannocchiale non crede più a nulla -neppure al piacere stesso di narrare le proprie fantasie, ma solo al dovere interiore di testimoniarne comunque il mistero-, Michaux percorre sia un universo microcellulare, sia una sorta di paesaggio minerale, non è chiaro se prima della creazione o dopo un’apocalissi nucleare. Una cosa però è certa: in questo habitat, interiore o fantastico che sia, l’uomo non c’è. E la sua assenza sembra essere una conquista, un sollievo per l’autore stesso.

Eccolo realizzare allora quanto Kafka ci aveva appena accennato descrivendo il suo inquietante e disanimato Odradek: l’apparizione di un universo che va oltre la tragedia umana,in quanto la sua alienata e alienante presenza ne è il reperto, ma un reperto già illeggibile. L’occhio di Michaux, scrittore e pittore, è simile a quello di un entomologo che osservi da dietro le lenti del suo microscopio un mondo minimo e mostruoso; è occhio divagante, extraumano, spaziale – un microrganismo confuso tra innumerevoli altri dei quali può cogliere solo forma e movimento insieme alla loro insensatezza. La frenetica rappresentazione di spostamenti, scontri, apparizioni, sparizioni, aggregazioni, disgregazioni lenticolari, non è che un incessante formicolare di pulsioni senza nome e sbocco, il cui significato è la sua propria traduzione in visioni; visioni che la storia dell’arte ricondurrà alla corrente dell’Informale e quella letteraria a un episodio anomalo, seppure suggestivo, del Surrealismo. Le trappole della poesia -o meglio del “poetico”- così come quelle della psicologia e di un certo psicologismo, vengono da lui eluse; la sua scrittura è solida, cristallina nell’autodeterminarsi. Un io parla in qualche luogo, ma non si sa in nome di chi e il luogo qual è. Moltiplicandosi in molti io, si rifiuta di assumere punti di vista risolutivi sul mondo, proprio perché l’Io sovrano si è dissolto. ”Non c’è un io. Non ce ne sono dieci. Non c’è io. IO non è che una posizione d’equilibrio1. Pur descrivendoci regni e scene “fantastiche”, tende ad autorappresentarsi, registrando un paesaggio inconscio irriducibile a qualsiasi coscienza che non sia quella del suo proprio accadere. Dietro le parole e le parabole, Michaux sa nascondersi in modo perfetto. Pagine come esorcismi – secondo la sua stessa definizione – contro qualcosa di ostile a cui solo la parabola può alludere, dato che l’autore non vuole esporsi, ma solo trascrivere, da medium, messaggi che gli giungono dai sogni. Nell’introduzione a Epreuves, exorcismes scriverà: ”La maggior parte dei testi seguenti è una sorta di esorcismo per astuzia. La loro ragione d’essere è tenere in scacco le potenze circostanti del mondo ostile”2. Che splendide opere crea la paranoia di un grande artista! Gli esorcismi della realtà, trasformati nella creazione di un lontano quanto irraggiungibile “altrove” caratterizzano, in modo icastico, la prima fase della scrittura di Michaux, almeno dagli anni Venti agli anni Quaranta.

2.

In Variazioni sulla scrittura, Roland Barthes osserva: “Conosco della mia scrittura solo ciò che conosco del mio corpo: una cenestesi, l’esperienza di una pressione, di una pulsione, di uno scivolamento, di un ritmo:una produzione, non un prodotto,un godimento e non un’intelligibilità”3. Secondo Barthes, infatti, la scrittura ”è sempre dalla parte del gesto[…]; si capisce meglio allora il fatto che possa ricollegarsi, scavalcando la parola parlata,alle prime tracce dell’arte parietale, alle incisioni rupestri, molto spesso astratte, ritmiche prima ancora di essere figurative”4.

Queste parole racchiudono forse uno dei segreti dell’esperienza successiva di Henri Michaux: a sua scrittura, da cronaca di eventi”mostruosi”, espressa con stile nervoso ma limpido, si fa sempre più eccitata e frammentaria,registra emozioni e sensazioni con misteriosa velocità e si dissemina sul foglio inseguita dalle proprie visioni. È lo specchio del temperamento febbrile e insofferente del suo autore, di una psiche e di un corpo straordinariamente irrequieti, che hanno necessità di registrare il mondo instabile delle proprie percezioni. Se, nelle prime fasi della sua scrittura, questa osservazione degli “stati” psico-nervosi aveva ancora referenti di carattere “surreale” – paesi e scene immaginarie, bizzarrie antropologiche – col trascorrere degli anni tende a una singolare “essenzializzazione” tradotta in un personalissimo ritmo “tachicardico”. È sempre la costante della distanza e dell’astrazione, del movimento vibratorio e connettivo, in ultima analisi, del ritmo, a connotare tutta la sua opera di pittore come di scrittore”5. La scrittura si ripiega – forse non è casuale che Michaux intitoli un libro La vie dans les pli – sulla narrazione del proprio “infinito turbolento” e questo infinito pullulare di mondi psichici e terminazioni nervose viene raggiunto, si può dire, mimeticamente, da una parola sempre più rapida che sembra non appartenga né alla scrittura né alla pittura, ma a una terra di transizione tra l’una e l’altra. Successivamente, l’esperienza con gli allucinogeni non farà che amplificare, portandolo alla luce, questo infinito -o spazio interiore- nascosto.

Michaux ora libera i segni. Ne I Meidosems – uno dei suoi testi più significativi, concepito negli anni quaranta – è quasi un opera pittorica, mostrandoci un popolo di lacci, corde, elastici, tutti presi da un incessante, tormentoso movimento. Compare la necessità di un segno che sia linea libera di essere percorsa, sia dallo scrittore che considera la propria scrittura un disegno scaturito dall’impatto col foglio, sia dal pittore che vede nei suoi scarabocchi l’evocazione confusa di un microrganico alfabeto di lettere.

Nel suo saggio sui disegni di Saul Steinberg, Calvino osserva che”il mondo si è trasformato in linea, un’ unica linea spezzata, contorta, discontinua. L’uomo anche: e quest’uomo trasformato in linea è finalmente il padrone del mondo, pur non sfuggendo alla sua condizione di prigioniero, perché la linea tende dopo molte volute e ghirigori a chiudersi su se stessa prendendolo in trappola. Ma certamente l’uomo-linea è padrone di se stesso perché può costruirsi o decostruirsi segmento su segmento”6. (Calvino sarà stato influenzato in qualche modo dalla lettura de I Meidosems ? Viene spontaneo chiederselo).

A questa decostruzione tende naturalmente la scrittura elettrica di Michaux, definita da Barthes una“stenografia della mano”. Tuttavia Michaux non traduce affatto, nel suo segno, quel senso di “trappola” a cui accenna Calvino, segno che delimita, definisce, infine si richiude. Alla sua linea, vuole far vivere La fuga del prigioniero verso l’ignoto, un “lontano da qui”, che afferma il senso del suo esistere nel proprio cieco vagabondare. “La linea,come me, cerca senza sapere ciò che cerca,rifiuta le scoperte immediate, le soluzioni facili, le prime tentazioni. Si guarda bene dal “raggiungere”- è linea di cieca indagine”7.

In questo abbandono di Michaux al disegnare, c’è qualcosa dell’ipnotica passività di chi lascia andare finalmente la mano sul foglio -quella sinistra, notturna,incontrollabile- che registra senza interferire i messaggi dell’inconscio. Così osserverà nella postfazione a Mouvements (1951) “I disegni, completamente nuovi i me, in particolare questi, veramente alla nascita, in stato d’innocenza e stupore; le parole, quelle, sono venute dopo, dopo, sempre dopo… Loro mi liberano? E’ esattamente il contrario. E’ perché mi hanno liberato dalle parole -queste compagne appiccicose- che i disegni sono slanciati e perfino gioiosi, che i loro movimenti, sono stati leggeri per me da creare, anche quando sono esasperati. Così io vedo in loro dei liberatori costituendo un nuovo linguaggio che volta la schiena alle parole. Chi, avendo seguito i miei segni, sarà sollecitato a farne lui stesso, secondo la sua natura e le sue esigenze, se ne andrà, se non mi sbaglio troppo, a una festa verso una sospensione ancora ignota, una disincrostazione, una uova strada aperta, una scrittura insperata e alleviante, in cui potrà infine esprimersi lontano dalle parole, dalle parole degli altri”8.

Questa “scrittura insperata e alleviante” nata per decondizionarsi da una cultura quasi esclusivamente verbale, ci ricorda -proprio come sosteneva Barthes -l’universo segnico delle incisioni rupestri. Singolare è la somiglianza con certe pitture primitive, in particolare con quelle delle Alpi Marittime in Liguria, risalenti all’Età del rame e all’età del bronzo, che il botanico inglese Clarence Bicknell ritrovò ed esaminò alla fine del secolo scorso. Nei suoi numerosissimi disegni che ci riportano fedelmente quel linguaggio -per noi così astratto, per quelle popolazioni così reale-, si svelano figure coniformi, omini che reggono smisurate alabarde; diverse figure geometriche come croci, stelle, cerchi, spirali, quadrati, rettangoli; e ancora corpi quadrangolari o trapezoidali che sembrano navigare sulla superficie increspata della pietra, simili a quegli scarabocchi che M. riscopre forse nella sua mano ”liberata” e proietta sul foglio. Come Bicknell, che si chiedeva, degli anonimi esecutori di quelle enigmatiche figure rupestri “chi fossero, da dove venissero e che significato avessero per loro quei segni sulla pietra” così Michaux, ai segni del suo universo visivo, avrà chiesto quale io, fra mille possibili, li avesse prodotti. Un io, forse, che ritornava alle proprie sorgenti, il più arcaico tra i numerosi che ci abitano. Che quelle incisioni rupestri, come migliaia di altre, possano avere, ai nostri occhi, facili assonanze con la visione del mondo dell’artista contemporaneo è un fatto puramente secondario, fa parte di una storia successiva. Sta di fatto che la linea essenziale “trovata” da M. non solo ricorda quella di certi disegni primitivi ma- ed è naturale sia così- anche quella dei bambini, nei loro primi disegni, l’una e l’altra essendo l’espressione di un unico linguaggio non verbale, autenticamente e universalmente naif.

3

La percezione di essere solo segno,”linea che si spezza in mille aberrazioni”, Michaux l’aveva già descritta in un testo fondamentale tra le sue opere sull’esperienza mescalinica, Misérable miracle. ”L’orrore stava soprattutto nel fatto di essere solo una linea. Nella vita normale, si è una sfera,una sfera che scopre panorami. Si passa in un castello da un minuto all’altro, si passa ininterrottamente da un castello ad un altro, è questa la vita dell’uomo, anche del più povero, la vita dell’uomo dalla mente sana. Qui, soltanto una linea, una linea che si spezza in mille aberrazioni.(…) Essere diventato una linea era catastrofico, ma era, se possibile, ancora più inatteso, prodigioso. Ogni io doveva attraversare quella linea. E le sue scosse spaventose”9.

Mentre ci parla della “catastrofe” della linea come del mezzo più naturale per giungere alla radice dell’uomo -alla sola colonna vertebrale o a uno spoglio fascio di nervi e nient’altro- Michaux ci appare ancora più irriverente ed autentico, come avesse raggiunto la sua “vera scrittura” nell’esperienza della gouache -o almeno nella tensione del suo linguaggio al puro grafismo. Finalmente e totalmente, Michaux si mostra. Senza vestirsi degli inutili lussi delle parole, ci confessa se stesso. Mentre con la scrittura aveva edificato microcosmi, fortificazioni, sbarramenti, cunicoli in cui nascondersi, ora accade il contrario. La sua “pittura” si getta fulminea sul foglio, restituendoci un universo arcaico,pulsionale e vibrante, cosa che la parola, molto più lenta e “mentale” non è in grado di fare. Come osserva Barthes, la parola non è mai abbastanza folle, dato che non può sottrarsi ala tirannia del senso. Ma il segno si. E soprattutto quando sgorga nell’occasione di quella grande prova che è il dolore. In Emergences-Résurgences ce lo racconta in prima persona, rivelando come l’autodeterminarsi della sua vocazione per la pittura tragga origine proprio da quello. Il lutto non potrà più essere un lutto rimosso. Non ci sono parabole o scene fantastiche in cui travestire o mascherare un dolore, nessuna parola capace di esprimerlo senza “tradirlo”: solo un gesto fisico che nasca proprio dal nero, dal profondo delle viscere e dell’essere, o da queste due cose insieme:”Nero (…) che supera tutti gli ostacoli e precipita giù spegnendo ogni luce: divorante nero”10 . Così come Goya ci aveva trasmesso con le sue Pitture nere e le sue nere incisioni.

In merito alle peintures di Henri Michaux, il poeta Jacques Dupin scrive: ”Irresistibile marea di grandi inchiostri, flussi di segni di cui correnti,mulinelli, rapide, sommergono e annientano ogni velleità di osservazione distante. Essere immersi e travolti è il solo modo di afferrarli e capirli…Ogni segno, emergendo, ci introduce in questo campo caotico potentemente scandito: è una pagina di scrittura, se si vuole, che capta e fissa solo l’energia istantanea della traccia, di una traccia che precede il segno e lo contiene, gli impone la sua influenza, lo rituffa nella vena sotterranea a cui il simbolismo di ogni lingua non ha direttamente accesso.”11

Michaux ci richiama alla vocazione estrema- e originaria- della scrittura: quella di essere non solo veicolo di comunicazione intelligibile, ma traccia della mano, movimento e proiezione del corpo ,infine “pittura”. Non a caso si troverà ad esaminare queste caratteristiche anche nei primi disegni del bambino che gli si presentano come “sovversivi”, messaggeri di una visione de mondo non razionale né prospettica .”Poco importa se l’uomo da lui disegnato appare, agli occhi degli adulti, più una pertica, un girino gigante, un clown, un grosso sanguinaccio o un’enorme barbabietola: Attraverso una linea la trasmissione si è compiuta”12). E il corpo dell’uomo è ”un corpo pallone, un corpo bastone, un corpo vacillante”13, incongruo come uno scarabocchio mai intruppato nel mondo “adulto”.

4.

In testi diversi -da Emergences-Résurgences a Face aux verrous a Déplacements,dégagements e in altri ancora- Michaux si dedica ossessivamente a definire e ridefinire,teoricamente, il suo rapporto fra scrittura e pittura. Ora è, finalmente, quanto nelle sue prime prove desiderava essere: “plume”, solo penna che disegna e scrive. Conquista la prodigiosa leggerezza che sognava, sia come scrittore che come pittore, affondando nella propria, pulsante “corporeità”. La scrittura diventa “eco” della pittura, a pittura visione della scrittura – l’una complementare all’altra.

A questo proposito non si può non riferirci brevemente alla calligrafia cinese -da lui molto amata e frequentata dopo la perturbante esperienza del suo primo viaggio in Cina- ovvero a quel segno che è anche alfabeto, a quell’alfabeto che resta comunque segno. “Su un foglio bianco di carta di riso le tracce di un pennello espandono inchiostro nero. Linee scure, morbide, sinuose, forti, energiche, aspre, sembrano disperse casualmente nello spazio, in libertà. A uno sguardo appena più attento […] si percepisce un ritmo, un fluire dei gesti, una variabilità della forza e ancora qualcos’altro: ciò che i cinesi indicano con la parola SHENJUN e che tradotto letteralmente significa “affascinare lo spirito”. Siamo di fronte a un’opera di SHO, una calligrafia»14.

I principi dello sho -che significa “arte della scrittura”- sono la padronanza del tratto, l’immediatezza de gesto, la continuità del ritmo e il controllo della forza impressa al pennello. “Ciò che importa è riuscire a trasmettere lo spirito, il senso, l’emozione o ciò che si vuole, sul foglio, di modo che le parole colpiscano gli occhi, lo sguardo di chi osserva “15.

Questo stato di equilibrio è emblematico: la concentrazione mentale e spirituale non è mai separata dalla metodologia rigorosa e dalla perfetta conoscenza dei materiali. Allo sbilanciamento dei caratteri ideografici o dei tratti di pennello risponde sempre un “movimento verso la tranquillità della conoscenza interiore. Come osserva Giuseppe Zuccarino a proposito dell’arte dello sho,” i segni tracciati corrispondono solo in parte a quelli che si erano pensati, giacché ad essi viene ad aggiungersi quell’imprevisto che nasce dall’incontro tra un particolare stato psicofisico e un determinato istante del tempo, entrambi irripetibili”.

Al contrario, l’opera di Michaux nasce come “liberazione” da un intollerabile turbamento, come sua “risoluzione”. Eppure i suoi segni, tracciati fulmineamente sul foglio quasi in stato di “trance”, assomigliano in modo impressionante agli ideogrammi dei maestri dello sho. L’analogia tra i due alfabeti segnici è apparente, in quanto il “gesto interno” di partenza è profondamente divergente: frutto di una lunga disciplina meditativa il primo, quasi un “raptus pulsionale il secondo, apparentato all’arte materica e astratta del suo tempo. Misteriosamente coincidono. eorges Mathieu aveva detto come, nell’arte informale, ”per la prima volta compare, in occidente, la rapidità dell’esecuzione come conseguenza di una necessaria concentrazione delle energie psichiche, che non hanno più nulla a che fare con l’ispirazione classica”16.

Di quella peinture d’instant fatta di vibrazioni, taches, linee in libertà, André Masson era stato uno dei massimi precursori, sostenendo che bisognava” far parlare la materia,completamente muta, stappandola alla sua inerzia, darle vita con il gesto”17. Lo stesso Michaux, in Emergences-Resurgences, gli farà eco: “L’’arte è ciò che aiuta a estrarre dall’inerzia”18. In consonanza con gli altri artisti materici e informali, egli concentra il suo “gesto” pittorico in segni dal ritmo elettrico e disordinato, svincolati da figurazioni e delimitazioni precise,sempre animato da una sfrontata avversione per le leggi del reale. Se, per Paul Klee, uno dei suoi maestri ”l’uomo dei miei dipinti non è l’umanità”, è altrettanto vero per entrambi che “scrivere e figurare sono tutt’uno”.

Tuttavia, l’esperienza di Michaux è, più in particolare, un’imprevedibile e sovversiva spedizione nel cuore dell’universo psicosomatico dell’animale-uomo, un viaggio cercato e compiuto, verso gli stati estremi della coscienza. Nella limpidezza della scrittura come nella fulminante stesura dei segni, c’è un artista che ha sconfinato oltre i codici della lingua verbale e un laico mistico che porta in sé un miscuglio affascinante di contraddizioni. Nella postfazione a La nuit remue, parlando di Mes proprietés, Michaux annotava: ”I brani, senza rapporti prestabiliti, sono stati concepiti con indolenza, giorno per giorno, secondo le mie necessità, come mi veniva, senza ’spingere’, seguendo il capriccio e sempre incalzato, in un lieve vacillare della verità, mai per costruire ma semplicemente per preservare.”19

Il nervoso e ritmico Michaux spinge “appena” la sua scrittura e la sua pittura in un leggero “vacillare” che risponde alla sua concezione dell’uomo : uomo che ha deposto qualsiasi incertezza per preservare il proprio inattingibile espace du dedans dal generale dissolvimento e dall’aggressione del mondo. E lo fa attingendo energie da due universi estremi, separati solo all’apparenza: quello favoloso e astratto -il “fuori di sé- che con le parole ha tentato di descrivere come irrealtà -e quello reale e arcaico del “dentro di sé” portato alla luce dai segni.

NOTE

1Henri Michaux, Un certain Plume (ed. ital. Un certo Piuma, a cura di A. Giuliani, 1971, pp. 200-201

2Herni Michaux, Epreuves, exorcismes, Partis, Gallimard, 1973, p. 9

3Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura, trad.di G. Zuccarino, Genova, Graphos, 1996, p. 56.

4Ibidem, pp. 62-63.

5L. Frisa, Autoritratto fuggente. Qualche appunto intoorno ai fogli di Henri Michaux, in AA.VV., Le trame parallele. Lettratura e artivisive, a cua di G. Zucarino, Genova, Graphos,1996, p. 93.

6Italo Calvino, Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 1995, p. 357

7Henri Michaux, Energences—Resurgences, Genève, Skira, 1972, p. 12

8Henri Michaux, Face aux verrous, Paris, Gallimard, 1992, p. 201.

9Henri Michaux, Miserable miracle, Paris, Gallimard 1972, pp. 126-128.

10Henri Michaux, Emergences-Résurgences,, cit, p. 56.

11Jacques Dupin, Contemplatif dans l’action, in Henri Michaux. Peintures, catalogo dellla mostra, Editions Maeght, Saiint-Paul de Vence, 1976, pp. 8-9.

12Henri Michaux, Déplacements, dégagements, Paris, Gallimard, 1985. p. 62

13Ibidem.

14Norio Nagayana, Shodo – le vie della scrittura, Roma, Stampa alternativa, 1993, p. 8.

15Ibidem, p. 9

16Georges Mathieu, Au-delà du Tachisme, Paris, 1963; cit. in J Claus, Teoria della pittura contemporanea nelle testimonianza degli artisti, a cura di G. Gatt, Milano, Mondaodri, 1975. p. 165.

17André Masson, Una pittura del movimento, in J. Claus, cit, p. 48.

18Henri Michaux. Emergences-Resurgences, cit, p. 64

19Henri Michaux, La nuit remue, Paris, Gallimard, 1996, p. 192.

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