Collana La Stampa, a cura di Maurizio Cucchi, n. 13, Milano, 2022

Un’ansia di metamorfosi
Talvolta occorre leggere un libro di versi partendo dalla poesia iniziale. E così lascio che accada, con Ufficio del sole di Giusi Busceti (Collana La Stampa, 2022). “Se l’estate non ci viene incontro / fra breve / ci ritroveremo decimati / su questa punta di mezzanotte / dove animali dalle pelli ignote passano / badando a non trovarci. Passano / anche gli elicotteri e si allontanano / di poco per riflettere. Chi / crederebbe ai nostri occhi? / Per cinquanta minuti una galleria del vento, / disse anche l’ultimo dei sopravvissuti; / ed io, scampata / perché scivolo meglio sui crepacci / sul cuscino immateriale che si gonfia / e si sgonfia nel cuore / e mi solleva, ho in nodo / una spalla slogata: afferrare /per sempre treni e navi fuori tempo, allargare / lo spazio per le vertebre spezzate. / E il cielo? / che da tempo ci copre con dolcezza, questo, / radar sull’arcipelago che trema, è lo stesso / che toglieva il respiro, in altalena”.
Cosa ci significa questa poesia? È un monologo vacillante della memoria? un “vocativo” da cui affiorano echi di disastri? una narrazione sospesa che si conclude nel segno di un ritorno alla mitica infanzia? Quando leggiamo una poesia reale, andiamo dove non sapremmo immaginare. Ce lo racconta Angelo Lumelli nella sua preziosa postfazione: “Forse così si spiega la densità luminosa della poesia di Giusi Busceti, un linguaggio che parte in piano, con un breve brevissimo abbrivio narrativo, per diventare subito desiderio, anticipo, futuro. Un’ansia di metamorfosi inocula in ogni accadere un’aura vaneggiante, siamo stupiti che il possibile sia così minuscolo, cucine, lavandini, lenzuoli e borse della spesa sulla soglia di un altro destino”.
Tutto il libro è questo vaneggiante “vocativo” barocco rivolto al lettore, nella costante fascinazione di una sintassi che circuisce l’oggetto senza afferrarlo, in modo che noi, parola dopo parola, perdiamo sempre il sentiero per poi ritrovarlo chissà dove. Ma uno stile barocco si compiace delle sue volute, le accarezza: non è così per Busceti, che percorre le sue frasi come da distanze siderali o vicinanze sgomentanti, usando la lingua da libera equilibrista, fra spiazzanti azzardi sintattici, come uno scivolo pericoloso dove rischiare di cadere ma dal quale poter vedere scorci di paesaggi impossibili. Una frenetica adolescenza pervade il libro come una febbre. Il tempo sembra quello di una Messa, senza il consueto “Requiem”, caratterizzata da un misterioso ma gioioso “Ufficio del sole”, segnale lucente di un’altra, panica, sensuale liturgia. Così scrive in Il giorno: “Si arrampica sulla pelle / insopportabile / il giorno. Schiarirà / si avverte appena aprile / tra corolle di spine bocci crudi. / Esordio dello splendore / annuale. E noi in discesa / papaveri prostrati scuotiamo / chiome sterili semi in greto / non aprono sentieri lungo i fossi, / Qui non balena amore, / un’idea condivisa / un infuocare”.
Se il poeta parla, in fine poesia, di un imprevisto “infuocare”, crea davvero un “contraccolpo”, come precisa ancora Lumelli, che nella postfazione scrive: “Il contraccolpo, per effetto inerziale, fa volare in avanti brandelli di storie, ore del vivere, segreti, masserizie, pile di piatti da lavare..”. Di fatto, leggendo i versi di Giusi, ci troviamo all’interno di una coreografia ora dolente ora spiritata ora grottesca, come nei funambolismi di alcuni poeti praghesi, fra tutti Vítězslav Nezval. Ancora una volta Busceti ci precede, è un passo prima, controlla la materia, la metrica, ci fa inabissare e risalire in improvvisi crescendo, come in certi adagi bartokiani. Insomma, con Giusi il lettore di poesia non può annoiarsi, trascinato in trame occulte e provocanti, in raptus della memoria, felicità incontenibili, dolori violenti. Il verso ne sussulta, come se fosse sgominato o infranto. Ma resiste, come i veli di certe sante barocche che sembrano sciogliersi d’improvviso ma invece resistono; sono veli di marmo, sospesi e scolpiti nel loro movimento come nella tessitura di un pizzo. “Voglio dirti che noi sogni reali / siamo il corpo dell’etere, in / cartamusa incarnati ad alzare ogni / voce recisa. Dentro il tempo che / batte e continua, quando / non ci preserva ma ci espone, mondo / che non scompare mai è amore”. Dove lo struggimento è anche ansia incontenibile di una vita che la ragione non trattiene nella griglia dei versi, e da cui le parole si liberano come volatili incantati e selvaggi.
(M.E.)
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ANTOLOGIA
Isole a cappella
Hanno versato fino all’ultima goccia
la medicina di lor trasparenze
e radiosa si fa sul bagnasciuga
lode la rocca a voce senza musica:
svolte, ora, morte, candida per vie
corteo di scale all’improvviso cielo
s’impenna a gradi a strappi
è dolore, versato a ondate, di campane
stuolo in slargo si riversa, è ora
nella pietra, è verso, in ogni aperto, è il coro.
Ampio ventre deserto questa culla
controcanta e placando contiene
la superiori ottave del grido
dormono immerse nel mistero disceso
dal contagocce. O piena
della notte che saliva dal golfo
o questa luna sì presente che ci accompagna
come una festa sospesa o una mano
sul prossimo assurdo calendario!
Alla sinistra
mi lasciai Gallura, a destra,
già mio patto, lo Stretto: verrà
anche la morte del cemento e
arrotondata la silice più aguzza,
trionfante il muro a secco a segnare
tra le siepi di spine un semprevarco.
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Normandia
Con te l’amore
va alla testa,
voce mia, di un tacito mai visto
audace esercito allo sbarco
in Normandia: elmi biondi saetta
a libertà siamo del cielo aperto
che un’estate assoluta
scese a coprirci, manto maestro color
blu invisibile Nati futuri
all’infinito paralleli, le confuse
frequenze a raccordare, del pensiero
alle rotte vocali, e poi alle spalle
nulla, e poi domani.
L’un’all’altro affidati
dalle estreme ciglia
piene di grazia complici
alla rosa discesa in mezzo a noi,
una parola sola.
Sorpresa! Era a centro passi
la svolta? Novenario, grano
del calendario, ora
riposo in mese in ventun lune
incomplete, che aspettava
il tuo primo giorno di scuola
per sapere di sé. Tuono
caduto a nascondino
dietro l’angolo, dov’eri
a camminare tutta questa
vita senza stelle?

[…]
Come spiegare altrimenti il duro esercizio sintattico che separa così nettamente il rappresentare dal dire? Tanti versi di Ufficio del sole esigono di essere scalati, mani e piedi impegnati sulle pareti difficili, tra inversioni, anticipazioni, processioni del genitivo, come se il linguaggio avesse già perso la partita terrestre, almeno quella in pianura, per portarsi fuori tiro, al fine salvare l’amore, la verità o la pelle…
Dalla postfazione di Angelo Lumelli
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Giusi Busceti è nata e vive a Milano. Ha pubblicato le raccolte Sestile (Corpo 10, 1991), A nucleo perso (LietoColle, 2007), la plaquette Buio selvatico (PulcinoElefante, 2017). Suoi testi sono apparsi in diverse antologie (“Perturbamento” e “Ombraluce”) e volumi critici (“Vertigine e misura”). Ha collaborato con le edizioni Corpo10 e con la collana di poesia Niebo. È ideatrice dell’Associazione Casa della Poesia al Parco Trotter di Milano.