IL SEME DELLE SERE A MAGGIO. Gianni Priano

1979

Il piccolo borghese che non sono

mai stato veramente chiede scusa

all’ uomo che la notte tra i cartoni

passa per rabbia o per religione.

Anche lui prova a chiedere perdono

a me che vorrei solo scomparire

ma prima con lui piangere e poi bere

litri di vino bianco, cancarone

che ti devasta; gloria, punizione

e poi allo sbirro che ci si avvicina

per controllare farglielo vedere

il bottiglione rotto che la faccia

quasi gli tocca. E quasi lo ferisce.

Il vagabondo che avrei voluto

in certi giorni essere, i capelli

corti e sul volto il colore forte

di fumo nero, ruggine e del sole

aspro di Sestri, Cornigliano, Roma

Londra e Grosseto, Arcachon, Pavia

chiede perdono al borghesuccio

pingue. Molle e acciaccato

che non è mai stato

pur invidiandone il torvo desiderio

di dissolvenza e pure di assassinio

nella mediocre divisa di uomo serio.

Il seme delle sere a maggio

A maggio i mattini sono strani

e strane le ragazze. A sessant’ anni

sono come metafore cattive

e vere e te la vedi proprio altrove

la vìta che hai vissuto troppo e male

e troppo poco e potevi fare peggio

a maggio di mattina l’aria frizza

sulla tua guancia c’ è la sua carezza

di un quarto d’ ora fa, di notte sogni

il nodo dell’antica timidezza.

Sono particolari le mattine

a maggio, in centro, è pieno di puttane

la notte e il giorno si sono prese il mondo

la vita e le ragazze le hai per figlie

la rosa che non colsi l’hai per moglie

quelle barchette di carta mentre piove

giù dal ruscello sono le tue voglie

ma è tardi amore sono già le nove.

Le sere a maggio hanno dentro un seme

un libro di preghiere, una bandiera

e le ragazze vanno, si sono messe in tiro

io resto e ad andare è il mio respiro.

Sanremese

Ogni portone è un arrivo

che lì non ci piove, che sali le scale

e ogni portone è un vicino

a cui chiedi l’olio, l’aceto ed il sale.

Ogni portone è un orrore

la bara che esce, che scivola via

e gli anni si mangiano tutto

lo sguardo, la voce sono archeologia.

Ogni portone ha un odore

che stagna, che vola, che non scordi più

non c’ erano inciampi, incertezze

ma solo il fiato e il cielo lassù.

E ore dentro un frullatore

nessuna lancetta ma vento e bufera

quella che ci stringe forte

appena comincia a fare sera.

Minuti che sembrano anni

il giorno smarrito come fosse niente

e poi l’indomani per strada

nessuna persona, moltissima gente.

Qualunque portone si chiude

si apre, a volte rimane sottile

la lama di luce che filtra

e vedi i limoni in mezzo a un cortile.

Qualunque portone è un abisso

un mare profondo, uno schianto

qualunque portone è un abbraccio

durezza di un bacio che soffoca il pianto.

Un vicolo cieco che ti porta a un muro

ai cocci aguzzi, ai licheni

alla guerra in faccia che abbiamo

bucati princìpi, memoria e i calzini.

Un porto container che riempie

un terreno malato di ferro e colori

di gru, topi, uccelli di mare

e forza lavoro, libeccio nei cuori.

Gianni Priano è nato nel 1962. La sua vita è giocata tra due altrove: il padre e la madre. L’ Aurelia che attraversa Voltri e le colline dell’ Alto Monferrato. Voltri è l’ altrove grigio metallizzato/ blu elettrico e i  Pliz (questo è il nome antico del posto in cui ha casa in Piemonte) versi, bianchi, azzurri, rosa, neri, marroni  gialli, rossi. Ha scritto libri di poesia, di racconti, recensioni per riviste di filosofia, canzoni e un saggio critico romanzata. A giorni  uscirà, con l’ editore Ladolfi, il suo ultimo libro intitolato Luce che passi sotto.

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Gianni Priano
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