

“Chi cade nella lettura del tuo libro non si trova a leggerlo parola per parola ma vaga dentro l’interminabile frammento del tuo corpo-mente che travasa linguaggi… Il concetto stesso di “scrittura” cambia, mentre scorro i tuoi versi e condivido il tuo “essere”… Sei determinato a costruire i tuoi libri unici di cui sei nomade, i tuoi personali deserti. Chi ti legge veramente ha “il buio come compagno di banco” e diventa tuo amico per sempre”, Queste sono parole tratte da Per le macchine del diluvio di Stefano Massari di Marco Ercolani. Se Stefano Massari l’avesse letto prima del gennaio 2022 (“Laboratori Poesia. Una domanda al poeta: Stefano Massari”), forse non avrebbe scritto: “Devo risalire al momento sorgivo, restargli fedele…devo costringere e convincere ogni elemento di questo corpo che dovrà sempre obbedire solo all’urto iniziale, consapevole che entrambi saremo sconfitti e traditi nel momento stesso in cui, divenuto testo, si consegnerà all’esperienza dell’altro da sé, all’esperienza del reale. Ed è necessario che succeda, è vincolante -inevitabile- giusto”.
Certo, il rischio della sconfitta e del tradimento esiste ma esiste anche la possibilità che, come dice Ercolani, proprio il sigillo, “il profilo di enigmi e di catastrofi personali e collettive” dello scrivente, produca in chi legge la “cognizione di quello stesso dolore, la folle partecipazione a una comune speranza”. Qui qualcosa è avvenuto: il mondo ha risposto, il sogno che il poeta aveva potuto manifestare solo attraverso il suo negativo, si è avverato. Ma qui chi scrive è Massari, chi legge è Ercolani. Ho sempre pensato che la poesia sia per la parola quello che per la comunicazione è l’empatia. È la parte magica della parola, quella che permette ad una creatura dotata di vista di far percepire ad un nato non vedente che cos’è una rosa al di là del suo profumo. Questo accade se la poesia si apre alla vita e non si ritorce su sé stessa. La poesia-parola è per l’altro, “accade”, come dice Massari, in modo compiuto solo dopo che, nel suo viaggio nel mondo, è incappata in sconfitte e tradimenti o in amicizie imperiture. Che cosa sposta l’ago della bilancia da un estremo all’altro? Incontri come quello che viene descritto su Scritture – Marco Ercolani (art.blog) richiedono consonanze e le consonanze richiedono affinità. Qui stiamo parlando di linguaggio e più precisamente di linguaggio poetico. Esso è il luogo principe della simbolizzazione e della sublimazione, quella capacità dell’essere umano di rappresentare idee, conflitti e quant’altro lo abiti, attraverso oggetti sostitutivi staccandosi così (con un innalzamento socialmente pregevole) dal rapporto più primitivo con i suoi oggetti reali esterni o interni, attuali o storici. La capacità di simbolizzazione non è la stessa in tutti gli individui e dipende in parte da una dotazione innata e in parte dalla storia di ognuno. I livelli di simbolizzazione possiamo rappresentarceli come piani paralleli che intersecano a diverse altezze una piramide. L’area dell’intersecazione si riduce ovviamente man mano che dalla base si sale al vertice. L’ipotesi è che ogni opera poetica si posizioni ad un preciso livello accessibile ad un numero sempre minore di individui man mano che la capacità di simbolizzazione aumenta fino al paradosso dell’apice. Qui il linguaggio a furia di rastremarsi diventa idiosincratico. All’estremo opposto abbiamo il minimo di simbolizzazione che coincide con il gesto, il suono, il contatto ma non in senso metaforico, proprio con tatto del tatto, validi per tutti tanto da travalicare il linguaggio verbale e renderlo superfluo. Gli estremi della capacità di simbolizzare (al massimo, al minimo) si incontrano sulla mancanza di intenzionalità comunicativa della parola. In entrambi, quindi, la poesia non può “accadere”. È la sfasatura tra i piani occupati da autore e lettore che determina “sconfitte e tradimenti”? Ed è la coincidenza che promuove consonanze? Mi sono spesso domandata se chi scrive poesia si ponga questo dilemma e mi sono domandata anche se sia giusto che se lo ponga.
Forse è più giusto invece che chi scrive punti esclusivamente a raggiungere lo “scatto indimenticabile” di cui ci ha parlato Angelo Lumelli in un recente incontro. “Il verso è una cosa così rara, distillata, impudente che ti colpisce la mente e il cuore in un lampo. Uno scatto indimenticabile”. L’autore, quindi, in ascolto di se stesso, del suo vibrare fino alla luce bianca, sospeso su di un istante che, per restare indimenticabile, deve dimenticarsi del destino che avrà nel mondo. Forse devo rassegnarmi ad ammettere che l’arte è, come la grazia, un dono tra due solitudini. (Non c’è scambio nella grazia.) Se è così, l’arte sorpassa il condivisibile così come in S.Agostino (Angelo Lumelli “La porta girevole dell’hotel Excelsior” in Le poesie) la santità superava la poesia.