RICETTE PER L’INVERNO DAL COLLETTIVO. Louise Glück

(Edizioni il Saggiatore 2022, traduzione di Massimo Bacigalupo)

nota di lettura di Danila Boggiano

Tutta calata nella lucida consapevolezza che le è connaturata, in questa raccolta Louise Glück guarda il tempo, lo coglie nella sua quasi risolta estraneità e lo rinomina con il nome di morte, dopo averla distolta qui dal suo ruolo di ansiosa interlocutrice e ineludibile compagna di vita, ma chiamata piuttosto a sovrapporsi al pensiero e alla parola. E allora ecco la necessità di ricorrere alla formulazione, quasi un modo correttivo del sentire, di istruzioni-ricette per sopravvivere. Certo, gli ingredienti sono tutti invernali, l’alto monte di ghiaccio, il buio, le foglie morte, gli scalini di pietra, il vento che non solleva ma trascina via, le perdite, la donna dal capo reclinato nell’indifferenza degli altri ospiti in quella che sembra una prova generale di morte, eppure, tra neve e ghiaccio, nei giorni di dicembre, il tempo è ancora guardato con la stessa tenerezza che passa tra le mani unite del ragazzo e della ragazza incontrati nel primo testo: loro sì, sanno scalare quel monte e si fermano “solo per mangiare dei frutti di bosco in un piattino / dipinto con immagini di uccelli” e, assecondando quell’immagine, volano via. Come il tempo.

Ma, benché a noi queste cose non siano concesse, quasi un’esclusione a priori dalla possibilità di amore, la memoria si concede il gioco tra i suoi stessi fili e va in cerca con casuale levità di qualcosa che ancora brilli, una notte trascorsa nell’aranceto di un albergo, la pioggia di cioccolatini avvolti nella carta stagnola lanciati da una mano amata, un arcobaleno di bambini che sguazzano nel lago, come a riscattare quel diario di viaggio ormai quasi concluso ma che il portiere dell’albergo, sorta di sguardo prospettico, punto di salvezza nel naufragio delle cose, ancora evoca. Perché quelle antiche pagine, ora che lei ha “cessato di creare cose” e questa è prossimità alla morte, vivono nel ricordo di lui che le ha ascoltate e smentiscono il senso convenzionale dell’orologio tenuto nella mano, dato piuttosto dal mutare della mano stessa.

E allora eccolo, il tempo, trascurato nella sua banalità, entrare in quel punto – o dallo stesso uscire – dove ancora deve accadere, dove le parole ancora devono essere dette, dove i vecchi sanno sconfiggere l’inverno andando in cerca, con tenacia e fatica, di muschio e, dopo averlo fatto fermentare e opportunamente trattato, rendono possibile quel “panino invernale rinvigorente” che non è buono ma che tutti noi mangiamo per non morire, come il pane del dolore nel deserto. A ogni popolo, a ogni individuo, è dato il suo deserto, la sua epica più o meno dolorosa. Così, per quel pane riempito di muschio grazie alla pazienza e alla fantasia di uomini e donne che si susseguono di epoca in epoca – credo sia questo il senso del”collettivo” – al tempo è reso il Buono che lo riguarda, del tempo è messo in evidenza il filo d’oro che lo attraversa e che incessantemente confluisce sul piccolo albero del futuro, le nuove forme che richiedono cura, vita che ancora e sempre è proclamata, essa stessa di sé nutrimento.

Certo è faticoso curare gli alberelli, occorre scegliere il vaso che li contenga – Louise sceglie una coppa di porcellana ereditata dalla nonna – e fare i conti con l’impeto del vento e l’esubero della luce e la stessa natura mortale dell’albero e la provvisorietà dei suoi contorni. L’amica che dovrebbe definirli ha infatti posato le cesoie: è morta? ha interrotto l’amicizia? o in lei è raffigurato il gesto della divinità che ci ha scagliati nella vita e ci ha lasciati alla nostra libertà, come nell’“Iris selvatico” i fiori? Ma, in qualche modo, sotto l’aspetto di una qualche forma, il piccolo pino nutrito dal muschio, protetto dalla coppa, brilla e cresce, vivo nel suo destino di morte, dal momento che “tutto alla fine muore” e “una morte in miniatura non c’è”. “Come l’uomo nell’universo”, benché a chi quel piccolo pino tiene tra le mani non sia concessa la potatura: solo dall’altro – amica, amore, dio – può essere tratto il senso della sua definizione.

Ed è con questa consapevolezza di necessità di relazione che il viaggio nella memoria prosegue attraverso ambienti e figure che riguardano antichi affetti, una panca, stanze, un’auto, l’amica delle cesoie, forse, la sorella, la madre, la zia, come una nuova possibilità di riscrivere la vita, visto che nessuno vive più che possa ricordare Louise bambina, così nei testi Viaggio invernale e Pensieri notturni. Ma chi mai potrà riscrivere una storia sino alla fine, o dall’inizio, chi mai “potrà sapere / se abbiamo già avuto esperienza della fine”, si domanda una “lei” caduta improvvisamente sulle pagine di Una storia non finita mentre sta raccontando una favola su una ragazza che ha subìto la metamorfosi in uccello, in una sorta di spirale in cui sembra impigliarsi il tempo e il racconto-viaggio, e in cui vedo rispecchiarsi il volo del primo testo e dei ragazzi, sul versante dell’amore, e degli uccelli disegnati-costretti sul piattino, sul versante della morte. “Non sapremo mai / se la storia doveva essere / un avvertimento o magari una storia d’amore / in quanto è stata interrotta”. Si resta nel vortice del naufragio, mentre il sole va calando e gli olmi allungano le loro ombre sull’erba e nell’aria vaga il desiderio di conoscere la storia sino alla fine, con la speranza che sia “una storia d’amore vera / se per amore intendiamo come eravamo da giovani / come se il tempo proprio non esistesse”.

Tuttavia il tempo ha una sua esistenza, un qualche principio lo incarna, si muove a una banale festa del presidente, “simpaticamente” nel sole sulla neve, e torna nuvola e minaccia, va incontro all’autunno, si accende e si spegne nella fiaccola che passa tra il corpo e la mente, lasciandoci alla speranza del suo tremolio, della sua reversibilità, ed è simile al rocchetto di filo che il bambino allontana e avvicina mentre la madre è lontana nel “fort/da, fort/da” di Freud, come nel testo Autunno.

Con lo stesso andamento il vento va e viene tra i pensieri, fa scaturire suggestioni dalle cose, mescola le foglie cadute e richiama antichi personaggi incontrati in raccolte precedenti, come il pittore di Notte fedele e virtuosa, si addensa agli angoli scuri delle tele e sembra eludere il soggetto disegnato al centro, tutto teso, come il pittore maestro e Louise l’allieva, alle sfumature. Perché il sole sta tramontando e le cose sembrano galleggiare tra la luce e il buio. “Non c’è abbastanza notte” – dice lei – “Nella notte posso vedere la mia anima”, benché la consapevolezza che tutto è già finito in quanto presto finirà (così nel testo Una frase), sembri rendere inutile anche la possibilità di questo sguardo. Resta il candore apparentemente gioioso di Una storia per bambini, dove re e regina e piccole principesse fanno ritorno in città dalla campagna cantando nell’auto la coniugazione del verbo “essere” mentre fuori la giornata va facendosi triste nelle immagini perdute di pascoli e mucche.

Quanti modi del lutto sa inventare Louise, quante ferite ancora sanguinano sotto la sua apparente rassegnazione, e quanti nascosti impervi sentieri svela il suo stravagante procedere… Ma anche quanti sorprendenti espedienti trova per dirci che, certo, è inverno, che dovremo accontentarci del pane del dolore, ma che c’è anche un certo Leo Cruz – il personaggio di una serie televisiva? – e le sta insegnando i nomi delle erbe del deserto e proprio nel deserto ha allestito un forno dove cuoce splendide porcellane. Come resistere alla tentazione di utilizzare quelle erbe per prepararci nuove ricette per l’inverno e quelle coppe bianche che lui va cuocendo come vasi per i bonsai? Un sogno?

Eppure noi con lei, siamo contenti di sognare che il fuoco è ancora vivo.

Louise Elisabeth Glück (fotografia di Katherine Wolkoff)

Louise Elisabeth Glück, poeta (Nobel per la letteratura, 2020). I suoi libri tradotti in italiano sono: L’iris selvatico (Giano, 2003), Averno (Dante & Descartes, 2019, Il Saggiatore, 2020), Ararat (Il Saggiatore, 2020), Notte fedele e virtuosa (ivi, 2021), Ricette per l’inverno dal collettivo (ivi, 2022). Con l’eccezione di Ararat, tradotto da Bianca Tarozzi, tutti i volumi sono a cura di Massimo Bacigalupo.

Danila Boggiano è nata e vive a Sestri Levante. Si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova. Pubblica Piccole foglie e sparse (San Marco dei Giustiniani 1997); La pazienza del tempo, (Sabatelli 1999); La tessitrice di vento (Le mani 2004); Amorosi sentieri (Bastogi 2008); Inconsapevole musa (San Marco dei Giustiniani 2010); Sibille (Oltre edizioni, 2020); In tenerezza declina il vento (San Marco dei Giustiniani, 2021).

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