

Le poesie qui raccolte sono state scelte essenzialmente per un motivo: si tratta di quelle che, a mio parere, hanno mantenuto l’urgenza iniziale camminando sulla corda tesa, dal passato fino ad oggi. Alcune sono arrivate pressoché immutate, altre hanno attraversato una riscrittura, soprattutto sul piano formale, raramente a livello d’intenzione. Diverse erano state pubblicate in libri ormai introvabili. Ho desiderato riproporle adesso, leggendole in maniera unitaria, dopo aver scoperto con una certa sorpresa i tratti nei quali è affiorato, a distanza di anni, un disegno complessivo, che è insieme memoria e apertura, rilancio. (R.F.)
La scelta di una parola poetica intessuta dentro un lessico semplice non è una scelta minimale. La lingua, scarna e minimale, di Raffaela Fazio è il contrario di una lingua “barocca” che procede per accumuli e analogie. Il poeta vuole consapevolmente elevare il minimo di maschere fra il suo io e l’espressione dell’io in versi: la presenza evidente e perturbante è quella del corpo umano, come sorgente affettiva. “Le tenebre plurali” e la “notte unica” sono l’essenza del pensiero poetico, sostanzialmente illuminista. La “notte unica” è la psicosi dell’uomo. Le “tenebre plurali” la libertà dell’uomo che germina da quella notte, il venire a patti con i soprassalti delle sue verità. Proprio nell’illuminare la sua notte Raffaela Fazio cerca la pluralità delle tenebre, la volontà molteplice di fare luce leggendo la propria noche obscura. “E poi leggere le cose / a voce alta, vedi / perché si alzino in piedi / in punta di piedi”. (M.E.)

Campo spietrato
questo silenzio
in cui dissiparmi
senza alcuno spreco.
*
Sono piccole le parole
di difficile incastro.
Intente a farsi perdonare
il loro altrove
e di aver finto (senza pudore)
di essere le nostre.
*
Piantato contro i loquaci
mi piace
l’albero che non prende forma
ma segue il respiro del cielo
e del cielo culla
instancabile
l’orma.
*
Scartare
nel fruscio delle ore
fino al dettaglio che in disparte
coglie la luce in punta al dolore
come nel nastro logoro, sbiadito
il ricciolo perfetto, fatto
col più maldestro tagliacarte.
*
A metà tragitto, gli oggetti
sono più piccoli:
lasciano il mondo intatto, in attesa.
Hanno la bellezza dell’arresa
alle esili cadenze dei fatti
e all’inessenziale forza
delle circostanze.
*
Sillabare.
Quando si crede che la linea è finita
bisogna ricominciare.
Imparare di nuovo
a lasciarsi cadere
sulle labbra il suono.
E poi leggere le cose
a voce alta, vedi
perché si alzino in piedi.
In punta di piedi.
*
Che strana forza il sonno
che ti rapisce al mondo.
Che strana forza il pianto
che ti rapisce al sonno.
Che strana forza la forza
che mi concedi
quando né al mondo né al sonno
cedi
ma sul mio petto.
D’un tratto mi riconosci
e di me ti avvolgi.
Mentre ti cullo cresci
oltre i recinti e le siepi bugiarde.
In spazi di istinti
dove non ho ricordi.
(per Juliette, 2008)
*
E poi mi toglie il fiato
sentirmi
un ciottolo sbiancato sulla riva
del tempo che hai davanti
inespugnato.
(per Juliette, 2008)
*
Vedere la tua mano che cresce
l’attaccatura dei capelli che si sposta
il rimbalzo che di colpo ha una parola
e poi sentirti nelle braccia più pesante
e sentire che è leggero eternamente
il mio non sapere
finalmente.
(per Juliette, 2008)
*
La vita non si vede a occhio nudo.
Perché si mostri chiede
che il fascio dei desideri passi
da una sottile lente, placenta
del dolore.
*
Vertigine, tranello
della mente:
ho creduto che il tuo occhio
potesse contenermi interamente.
Ma niente è mai possesso
comprensione, piuttosto
la caduta
di un angelo ribelle
che muove la pupilla.
E entrambi ci denuda.
L’intuito è questo schianto,
no,
è il vuoto che precede.
*
Forse per te
sono l’alone al muro
lasciato dalla cosa quando è tolta.
Ma forse tra visione e forzatura
a volte sono il limite risolto.
*
Indifesa, boscosa la notte
confonde le tracce.
Sulle labbra scatta
la tagliola di un affronto.
E tutto il corpo è preso
in quella morsa:
da sola la ferita si fa sangue.
Ma poi riemergono
le forme, gli alti fusti.
Smettiamo di parlare.
È un allungarsi di ombre nella luce.
Le accuse, la paura
non valgono più niente.
Ci basta il desiderio
a renderci innocenti.
*
Un niente
ci separa, un momento
in anticipo o in ritardo
su se stesso.
Non so il sapore
che il pane oppure l’aria
ti lascia sul palato.
Non so su quale mare
avviene
il raro avvistamento.
Per quanto io ti guardi
non so come seguirti
ora che muori.
*
Non abiterai il mio destino.
Ma quando sarò forte
non spierò più il gesto e l’ora.
Ti dirò soltanto: la chiave
è sotto lo zerbino.
*
Credo.
Credo che il giorno già viene.
Ma non lo vedo.
Né credo
sarà un profilarsi di ordito.
Piuttosto credo
in un rado, stupito
disfarsi di nodi.
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I testi sono tratti da: Raffaela Fazio, A grandezza naturale (poesie 2008-2018), Arcipelago Itaca, 2020.

Raffaela Fazio (Arezzo 1971) ha trascorso dieci anni in vari paesi europei prima di stabilirsi a Roma, dove lavora come traduttrice. I campi di cui si occupa, oltre alle lingue, sono la poesia e l’iconografia cristiana. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni. Tra le ultime raccolte di poesia: L’arte di cadere (Biblioteca dei Leoni, 2015); Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press, 2017); L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice, 2018); Midbar (Raffaelli Editore, 2019); Tropaion (puntoacapo Editrice, 2020); A grandezza naturale 2008-2018 (Arcipelago Itaca, 2020); Meccanica dei solidi. Solid Mechanics (puntoacapo Editrice, 2021); Un’ossatura per il volo (Raffaelli Editore, 2021). Ha tradotto dal tedesco Rainer Maria Rilke (Silenzio e Tempesta, Poesie d’amore, Marco Saya Edizioni, 2020), e dall’inglese Edgar Allan Poe (Nevermore. Poesie di un Altrove, Marco Saya Edizioni, 2021).