


1980, Teatro Stabile di Genova. Dal diario di un attore di Tadeusz Kantor durante la rappresentazione di Wielopole! Wielopole!
E lui è lì, sulla scena, come sempre. Lui, Tadeusz. Blocca l’irrompere di un rivoltoso dal tramezzo sbilenco; commenta con una risata sarcastica il crollo di un muro e la marcia di un drappello; vestito rigorosamente di nero, assiste con aria composta e dolente a gesti di meraviglia o di terrore. Con calma straordinaria cammina in mezzo a noi come un poeta rileggerebbe ad alta voce i suoi versi, lanciando a uno un’occhiata struggente, all’altro uno sguardo carico di rimprovero. Ferma il braccio di Elisa, dissotterra la gamba di Karl, dialoga in silenzio con Victor, il mutilato; con le dita sfiora appena il profilo di una forca, la carta di un foglio, il legno di un banco. Si siede al tavolo di una taverna che non esiste; chiude gli occhi, apre gli occhi, solleva la mano sinistra. Il tavolo, allineato con un altro, diventa una croce. Gli occhi semichiusi, si allontana in silenzio, la mano a schermo sulla fronte.
Poi, di colpo, le tenebre. Il tavolo diventa porta di baracca, investita dal riflettore di un lager. I corpi si afflosciano al fragore delle mitragliatrici, al rumore degli spari, allo strepito degli slogan. Poi, il silenzio. Lentissimamente, lui torna indietro. Sparsi sul palcoscenico, pallidissimi, noi – i morti. Si ferma, si china, protende le dita. Aggiusta una manica, ricompone una gonna, rimodella l’ovale di un viso. Deformati dalla fine violenta, i corpi riacquistano espressioni tranquille sotto i suoi gesti pietosi. Non sussultano più. Smettono di spasimare. Si placano. Ora si avvicina a me. Sono sotto un’asse di legno. Mi sfiora la guancia – non era scritto nel copione –, scuote la testa, si allontana. Poi si gira verso il pubblico. Sottovoce, il mento fra le dita, annuncia con un cenno del capo la fine dell’opera. Mentre già tutto il teatro è nero, sussurra tre volte, nel buio assoluto, una parola di cui non ricordo né il suono né il senso…
(M.E.)

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sette doveri altissimi decidevano nei corridoi
parlavano di una parte di guerra e una di azzurro
e l’altra di sabbia da masticare piano consolando
il riflesso nero delle maree la pelle paziente
e femmina del collo la grazia avverata
prima del coro lunghissimo buio
(S.M.)
I testi di Stefano Massari sono tratti da Macchine del diluvio, Gli insetti, MC editore, 2022.
