CAPELLI D’ANGELO. Alessandra Paganardi

William Blake
Georges Seurat

Il turno di notte è sempre stato il mio preferito. Soprattutto d’inverno, quando il vapore di condensa sopra le risaie le fa sembrare piccole insospettabili fabbriche di vita, come fossero stagni, o alveari visti da lontano. Mi ricordano le ghiacciaie cariche di gelati, alte e massicce, di quando ero bambina: si aprivano dall’alto e sprigionavano nebbia fresca e buona, che già da lontano profumava di vaniglia e cioccolato e ci diceva di correre al bancone del bar, di afferrarla sopra un cono variopinto, di morderla finalmente dal vero.
Sono quasi ad un passo dalla pensione e continuo a scegliere, quando possibile, il turno di notte. Un privilegio che qualche lustro fa poteva apparire un obbligo, sebbene ai miei occhi non lo sia mai stato, ma che nessuno, nelle mie condizioni, accetterebbe ormai più. I colleghi mi ringraziano e sorridono, giudicandomi certamente un po’ originale. I dirigenti sono felici di organizzare il servizio notturno per un lavoro che di per sé non lo richiederebbe strettamente e di potermi lasciare, vista la mia decennale esperienza, perfettamente sola a svolgerlo.
La gente spesso non capisce che è una vera fortuna riuscire ad amare ciò che nessuno ama: non trovi mai fila agli sportelli, non susciti invidia e non sei obbligato, a meno d’essere tu a volerlo, ad alcuna competizione.

Da giovane volevo diventare infermiera. Se non ci sono riuscita è stato per un insieme di circostanze, che soltanto molto tempo dopo avrei cominciato a giudicare davvero fortunate. La mia difficoltà negli studi, innanzi tutto: fin dalle elementari non ero mai stata brillante e avevo già fatto un’enorme fatica ad acciuffare la promozione ai due anni dopo la terza media, allora obbligatori per accedere al corso professionale. Dopo il primo semestre, poi, tutta quell’anatomia incominciò a non volersi infilare in nessun modo nella mia testa, soprattutto se la confrontavo con la volatile facilità con la quale le mie compagne di corso sembravano in grado di apprendere per poi magari, con la medesima distratta scrollata di spalle, dimenticare tutto. Quando ci vestivamo in divisa per le ore di stage in corsia, vedevo nelle turniste e nella caposala tanti angeli giovani, bellissimi e slanciati; mi chiedevo un po’ divertita come sarebbe apparso negli anni quel camice fasciato in vita sul mio corpo già allora grassottello, sgraziato e renitente alle cinture. Allora, prima che tutto cambiasse, c’erano ancora le suore in questo piccolo ospedale di provincia, che ha sventato la chiusura trasformandosi in un polo d’eccellenza per le malattie neurologiche e la riabilitazione. Mi sembravano sciatte e contente, almeno così credevo: speravo nella loro complicità, specie quando, con una domanda appena più loquace di un semplice cenno, ci chiedevano di portar loro il caffé, ed io ero sempre la prima ad offrirmi. Dopo alcune settimane di corvé ebbi la precisa sensazione che, in un sentire che con crescente sorpresa andavo identificando come agro disamore verso il mondo, quelle suore detestassero me ancor più d’ogni altra allieva: forse rivedevano in me qualcosa di se stesse da giovani, o forse le innervosiva il mio carattere cortese ma riservato, impossibile da scambiare con qualunque forma di servilismo. Ho azzardato in silenzio varie ipotesi, ma non sono mai riuscita a scoprire quale altro aspetto della mia persona abbia potuto rendermi loro tanto irreparabilmente invisa.

A metà del secondo semestre, ancor prima di sostenere gli esami fondamentali, mi dimisi dall’internato senza dare troppe spiegazioni: anche questo comportamento, per me del tutto naturale e spontaneo, stupì docenti e direttori, forse persino li irritò. Certo ci si aspettava che io affrontassi bocciature e ammonizioni con umiltà, fiducia nelle istituzioni e malcelata invidia verso chi ce la faceva, contribuendo implicitamente, con il mio stesso insuccesso, a dar credito e prestigio alla severità della scuola; o perlomeno avrei dovuto ringraziare, chiedere scusa se il prezioso posto d’allieva era stato negato ad una giovane meritevole per essere indegnamente affidato a me. Quando la caposala me lo fece garbatamente capire, ponendo l’accento sulla fortuna, soprattutto per me residente, di essere stata accolta in una scuola ambita da ragazze provenienti da ogni parte d’Italia, le risposi con altrettanto garbo che non avevo obbligato nessuno ad accettarmi come allieva e che non ero tenuta a rispondere, io inesperta minorenne, degli errori di selezione commessi da persone ben più competenti di me in materia.

Credevo che, visti i rapporti non certo idillici con la dirigenza, la mia domanda d’assunzione come ausiliaria sarebbe stata respinta; invece fu subito accettata. Forse l’istituto si trovava a corto di personale; oppure dall’alto avevano escogitato il modo d’infilare al mio posto d’allieva qualche volonterosa e riconoscente ragazza, fino a quel momento relegata per errore alle ben più modeste mansioni che invece, con tutta evidenza, facevano proprio al caso mio. Magari, chissà, mi assunsero proprio perché fin dall’inizio avevo messo ben in chiaro la scelta del turno di notte.

Il lavoro d’ausiliaria non mi dispiaceva. Intabarrata in un bel camicione informe color blu, che sembrava fatto apposta per un’obesa cantante di gospel, mi sentivo efficiente e persino graziosa. Lavoravo dalle dieci di sera alle sei di mattina, come faccio anche adesso; avevo pochissimi rapporti con medici, suore, allieve e diplomate, e soprattutto non dovevo mai portare il caffé a nessuno. Giravo con il mio carrello delle pulizie, lasciando dietro di me quel sentore d’alcool denaturato ed acido fenico che cominciavo lentamente ad amare e che mi accompagnava anche fuori, penetrando nella pelle come una fragranza originale e tutta mia. L’unico particolare che mi pesava davvero era l’impossibilità di alleviare direttamente, come avrei voluto, la sofferenza dei ricoverati: ci riuscivo indirettamente, però, facendo splendere in perfetto ordine i pochi metri quadrati che essi avevano a disposizione per stare meglio o per morire, lavando con cura i bagni comuni dove gli autosufficienti si recavano in fila di mattina, con i loro pezzi di sapone chiaro dentro gli asciugamani ripiegati. Se non fosse stato per quei tristi camici da degenti, l’avresti detto quasi un campeggio, o una colonia estiva per figli d’impiegati.

Non essendomi mai sposata, e dovendo provvedere unicamente alle mie singole esigenze di riposo sindacale, trovavo del tutto naturale prendere ferie nei periodi meno richiesti dell’anno, come maggio, ottobre o il marzo non pasquale, oltre a lavorare spesso nei giorni di Natale e Capodanno. Forse proprio questa flessibilità, unita alla mia sorprendente mancanza d’ambizione, ha finito per rendermi con l’andare del tempo assai bene accetta a colleghi e dirigenti. Pochi mesi prima che l’ospedale venisse completamente ristrutturato e ingrandito mi fu proposta una riconversione di carriera, che mi ha portato a svolgere il lavoro di adesso. Accettai con qualche perplessità: avevo passato la quarantina, da oltre vent’anni svolgevo di buon grado le medesime mansioni esatte e ripetitive, e l’idea di seguire un corso che prevedeva una robusta parte teorica non mi entusiasmava per niente. Dopo meno di un mese, però, compresi che era proprio quello il lavoro che avrei voluto fare da sempre e che forse tutto, per vie misteriose, sbucava fin lì: l’iscrizione al corso per infermiere, i malumori, la rinuncia al diploma, la decisione di restare comunque all’ombra di una corsia, senza entusiasmi né rimpianti, nella pianura bagnata di nebbia e di risaie dove sono nata e dove tutto mi sembra scontato, tranquillo, anche le temperature estreme d’inverno e d’estate – e a non saperlo non lo crederesti possibile in questa piatta foschia orizzontale, stesa sulla vita come una tiepida coperta all’uncinetto sulla febbre di un ammalato.

Quando mi fu affidata Grazia avevo incominciato il nuovo impiego da meno di due anni. Fino allora avevo vestito molti vecchi, parecchi adulti malati di tumore, rari bambini idrocefali e qualche cerebroleso senza età. Era da poco passata la mezzanotte, il turno sembrava tranquillo e stavo cominciando ad assopirmi. Mi svegliò il rumore del montacarichi, giusto il tempo per non farmi trovare impreparata ad accogliere Davide. Avrei dovuto capire dal suo volto che stava portandomi qualcosa di speciale. Non mi fu chiaro di che cosa si trattasse, finché non notai il lenzuolo appena rigonfio sopra la barella, come se nascondesse qualcosa di piccolo e compatto, appena avvertibile.

Davide non è persona di molte parole: spesso mi affida la barella e gli abiti con un semplice saluto, avvertendomi soltanto se l’urgenza è particolare, o se si prospetta un turno affollato. Quella volta aveva con sé soltanto la barella, e parlò piuttosto a lungo, fermandosi nel disimpegno del seminterrato dove io sostavo per ricevere la consegna. «Quindici anni non ancora compiuti. I genitori si sono barricati in casa ieri pomeriggio, dopo la telefonata, e non sono voluti tornare in ospedale per rivederla. Non hanno lasciato vestiti, hanno detto di pensarci noi e di lasciarli in pace fino a domani… è il loro modo per elaborare. Abbiamo aspettato un po’, ma è meglio fare come dicono loro… so che puoi pensarci tu».
Ci penso io, balbettai senza suono, ma c’era un’altra domanda che non usciva: non il nome, no, non chiedevo mai come si erano chiamati i miei assistiti, e in quel momento decisi, non so perché, che lei sarebbe stata Grazia, un nome davvero improponibile per un’adolescente del duemila. Forse glielo scelsi proprio perché non era il suo vero, come si usa cambiare il nome di battesimo per uno pseudonimo d’arte, o in seguito ad una conversione religiosa. Non pronunciai neppure una parola, eppure Davide rispose ugualmente. «Astrocitoma infantile. Si era manifestato all’età di nove anni. Di solito è benigno, con un’evoluzione per lo più favorevole….». Lo disse con un disappunto ancor più amaro della pietà: come morire per un fuoco amico, o in una battaglia vittoriosa, mi pareva che intendesse. E di un male che a chiamarlo per nome sembrerebbe quasi una stella, o un fiore. «Non preoccuparti, la preparo per la fine del turno e ti chiamo in reparto» risposi, stavolta parlando.

Mi feci forza e, congedato Davide, spinsi le ruote nello stanzone principale dello scantinato, dove poco prima era iniziato il mio breve sonno. Sotto le luci del neon arrotolai con delicatezza il lenzuolo, fino ai piedi. La salma era perfettamente pulita: forse perché, nel decidere di rispettare l’angosciato isolamento dei genitori e di affidare a me anche il compito di scegliere l’abito, era passato un lungo intervallo di tempo e l’infermiera di turno era stata costretta a sbrigare le tristi incombenze delle prime ore, assai più spesso compito mio. L’avevo già intuito, del resto, dal breve resoconto del portantino.
Se la morte è ciò che rimane di qualcosa o di qualcuno, non potei fare a meno di chiedermi che cosa restasse di una quindicenne, che aveva trascorso ammalata quasi metà dei suoi anni. Nulla, si sarebbe detto, pochissima vita, quasi nessun ricordo. Invece basta rovesciare la prospettiva comune per capire che di Grazia rimaneva l’intero, tutto ciò che il tempo non era ancora riuscito a guastare. Era sufficiente guardarla per capire. Ho visto cadaveri di tutti i tipi, ma in quella morte c’era qualcosa di terribilmente semplice e intatto, come si vede soltanto nei lattanti in procinto di svegliarsi, quando hanno avvertito il morso acerbo del cibo primordiale che è venuto loro meno. Forse perché in lei nessuna possibilità, se non la vita stessa, era mai riuscita a diventare impossibile, Grazia personificava la morte con una nettezza tremenda, che annullava ogni residuo di sentimentalismo e suscitava soltanto una venerazione calma, assoluta. Ci sono persone schiave del proprio egocentrismo, che vorrebbero farsi imbalsamare pur di ottenere un simile scopo: ho letto da qualche parte che Evita Peron è riuscita in tale intento. Ma la venerazione è qualcosa che non si compra e non si ottiene per forza di volontà o di potere: è un miracolo che arriva da solo, come la bellezza. Se così non fosse, Dio sarebbe un bravo generale che conduce i propri eserciti in un perpetuo trionfo, un ricco magnate della vanità, oppure un volgare tiranno.

Sbrigai in fretta le operazioni necessarie per il trasporto del corpo fuori del Comune sede del decesso, così com’era indicato dal codice riportato sulla barella. L’idea di dover scegliere un vestito per quella ragazzina mi sconcertava. L’avevo fatto altre volte per qualche clochard arrivato in fin di vita all’ospedale, o per parecchi malati anziani e senza figli, che non avevano pressoché più nessuno al mondo. Avevo sempre fatto del mio meglio, ma ora la situazione si presentava diversa: non potevo fallire. Sarebbe stato come se un soprano stonasse l’acuto finale di una grande opera.

Nella saletta attigua allo stanzone di lavoro, adibita all’origine a spogliatoio e doccia per il personale, avevo allestito una specie di guardaroba dell’Eden. Davide lo sapeva: per questo mi affidò Grazia. Sono panni e monili che i parenti, a volte, regalano per gratitudine a noi inservienti, affinché li possiamo utilizzare un’altra volta in caso di bisogno: è un modo insolito e delicato per ricordare il loro caro. Alcune volte, soprattutto in caso di guarigioni insperate, riceviamo persino abiti particolarmente significativi o importanti. Ho chiesto ai dirigenti il permesso di portare da casa un attaccapanni orizzontale in alluminio cromato: lì appendo questi vestiti appartenuti a generazioni diverse, che danno alla morgue l’aspetto decoroso e gentile di una cappella ex – voto.

Lasciai un attimo sola Grazia e corsi al mio piccolo santuario. Volevo decidere subito. La memoria era già corsa ad un bellissimo abitino da Cresima donato dalla mamma di una ragazzina di tredici anni, guarita da un brutto attacco di meningite. Non ricordavo la taglia, ma non sarebbe certo stato difficile adattarlo alla figura irrealmente sottile di Grazia, sulla quale l’età pubere, trovando come predecessore ed antagonista la devastazione del male, era passata senza chiasso, lasciando dietro di sé il rigoglio discreto di certe rose nane di serra.

Mi sentivo quasi felice: l’abito stava alla perfezione. Ero quasi alla metà dell’opera, anche se mancavano alcuni particolari. Trovare calze adatte non fu difficile, essendo il vestito lungo quasi fino alle caviglie. C’è chi ama mettere le scarpe ai morti: io l’ho sempre giudicato imbarazzante, una specie di sinistro incoraggiamento ad alzarsi in piedi come Lazzaro, qualcosa che troverei davvero blasfemo pensare di ripetere.

Sistemai la cerniera come meglio potevo sulla schiena, evitando di allacciarla fino in alto dove risultava troppo stretta, e mi sfilai gli orecchini d’argento. Si erano leggermente scuriti dietro, in prossimità della clip, ma dall’alto non si poteva certo notarlo. Me li aveva lasciati mia madre: avevano una montatura alquanto appariscente, di quelle antichizzate e un po’ barocche che sembrano mimare un rosone, ma non erano di dimensioni eccessive, neppure se pensati su di un volto ben più piccolo ed esile del mio. Al centro, incastonati nelle spire del rosone, riposavano due piccoli turchesi tondi. Sotto quelle palpebre, chiare e sottili come la prima pelle di un neonato, gli occhi di Grazia non potevano che essere stati azzurri. Due pietre di colore simile sarebbero state gli interpreti discreti di quello sguardo: come quando una mamma, all’uscita di scuola, intuendo la stanchezza e il malumore del proprio bambino, non gli pone più domande e per tranquillizzarlo incomincia ad imitarne accenti ed inflessioni, a parlare al posto suo.

Le parrucche non mancano certo nel mio laboratorio: più che ex voto o doni sono strumenti tecnici, dotazioni dell’ospedale per il nostro particolare tipo di lavoro, anche se non è raro neppure qui qualche lascito. Nella stanza di là ce ne sono di tutti i tipi, ma per Grazia esclusi subito qualunque ipotesi, anche la più raffinata, che rischiasse di conferirle un aspetto di bambolina dozzinale, così gentilmente risparmiato dalla morte. Una semplice bandana l’avrebbe riammessa simbolicamente nel branco dei coetanei, dal quale la forzata consuetudine con interventi, medici e cure l’aveva certo tenuta lontana per interminabili periodi.

Gliene scelsi una azzurra, blu e bianca, con disegni vagamente etnici, dono di non so più quale bambina transitata in ospedale per affrontare una riabilitazione. Realizzava un singolare contrasto con l’abito da cerimonia, che da solo, su una deceduta adolescente, avrebbe facilmente rischiato di riprodurre la retorica stucchevole del vestito da sposa, con l’annesso, macabro simbolismo del bacio della morte. Se Grazia non aveva mai potuto ricevere un bacio d’amore, se il suo breve frammento di giovinezza era trascorso nel segno di una battaglia perduta che non aveva lasciato tempo per altri turbamenti e altre gioie, non sarebbe certo stata la morte a rubare qualcosa che, come la luce ed i sogni, non è proprietà di nessuno.

Mentre sistemavo la bandana dietro le orecchie, meravigliata di quanto avessi fatto in fretta a condurre il lavoro e felice di poter richiamare così presto Davide, del quale conoscevo il grande scrupolo professionale, qualcosa mi colse impreparata. C’era un ciuffo di capelli, lungo fino alle scapole e biondissimo, che non avevo notato subito perché era attaccato alla zona posteriore del cranio, in prossimità del foro occipitale; o forse perché la luce del neon, combinandosi con il colore chiaro di quella peluria, mi aveva inizialmente stordito. Sembrava cresciuto in quelle ultime ore, tanto era delicato e luminoso: uno di quei ciuffi di cereali selvatici che s’incontrano in certe zone semidesertiche, e che distingui dai cespugli d’erba arida non tanto per il colore, quanto per la morbidezza di piuma che le minuscole cariossidi, anche osservate da lontano, vantano rispetto all’invidiosa fame che le assedia. Ora ho proprio finito, pensai verso le quattro, mentre mi accingevo a richiamare il reparto, come avevo promesso alcune ore prima.

Purtroppo non portavo con me il portaritratti apribile d’oro intarsiato, altra eredità di mia madre, che avevo già deciso di regalare a mia nipote Martina per la sua prossima Comunione. Ero molto affezionata a quel gioiello: la mamma aveva voluto lasciarlo a me, primogenita e nubile, pensando che mi spettasse per una sorta di giustizia distributiva, visto che le altre due figlie avevano pur sempre la possibilità di ricevere doni simili dai loro mariti. Ero certa di far cosa gradita a mia sorella e alla bambina, e mi rimaneva soltanto lo scrupolo di regalare qualcosa che, in fondo, era già di loro proprietà. Ci aggiungerò qualcos’altro, mi dicevo un po’ pigramente, ma non riuscivo mai a scegliere un oggetto che non fosse né troppo convenzionale, come la solita scontatissima penna stilografica, né troppo distante dal mondo di una piccola donna tanto diversa da me.

Quella notte, un’ora prima di smontare dal mio turno di notte, mentre la fetta di nebbia marzolina intravista dal finestrone del seminterrato mi avvertiva che l’alba non era più così lontana come quando Davide era sceso con il montacarichi, decisi ciò che avrei messo nella custodia cava del portaritratti, senza più aggiungere altri doni. Trovai da qualche parte una busta mai usata, con la chiusura intatta, e vi sistemai l’esile ciuffo di capelli dopo averli legati con due fili di cotone, perché nulla andasse smarrito. Leccai con cura il bordo fino a sigillarlo perfettamente, misi la busta nella borsetta e andai a prepararmi nello spogliatoio a fianco, aspettando la fine del turno.

A Martina avrei detto di conservarli con cura, perché erano capelli d’angelo: sin dalla nascita ognuno ha il proprio custode, ci raccontavano, che cambia continuamente insieme con il suo padrone. Cresce con noi, si nutre dei nostri pensieri buoni o cattivi, intristisce quando siamo ammalati, stanchi o quando abbiamo qualche rimorso di coscienza. Avevo chiesto alla mia insegnante di catechismo se anche l’angelo poteva morire: mi rispose, un po’ contrariata, che ad una certa età, quando si muore, l’angelo ha già fatto la sua parte e ha ricominciato il turno presso qualche altro bambino.

Non so dove sia finito l’angelo di Grazia, dei tanti bambini che non sono diventati né diventeranno adulti. La mia insegnante preferiva fingere che ciò non accadesse, forse per non dover mai domandare a se stessa, né spiegare a noi perché. Certamente Martina non ha creduto alla mia storia, ma in realtà io non volevo che ci credesse: volevo soltanto provare ad offrirle, con il mio dono, l’ultima fiaba vera. A volte mi dico persino che forse ho fatto una cosa sbagliata, portandomi a casa quel singolare dono, ma sono sicura di non aver mancato di rispetto a Grazia, né a nessun altro degli angeli che vestirò da bambini. Le fiabe vere servono a questo: a dire qualcosa d’importante, senza mai diventare crude come un telegiornale o difficili come un libro per adulti istruiti. A dire ad esempio che gli angeli, se davvero ci seguono come la nostra ombra migliore, qualche volta devono essere capaci anche di morire.

Arizona (USA), 30 Luglio-1 agosto 2008

*Il racconto ha vinto, per la narrativa breve, il Premio Aurelia Josz, sesta edizione, 2021.

Alessandra Paganardi

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