IO SONO UN UOMO TERRESTRE. Giorgio Galli

di Giorgio Galli

Leoš Janáček

Brno, 15 febbraio, 1926

Cara Kamila,

so bene che il mio tempo sta per scadere. Lo sento da vari segnali, ma prima di tutto dall’improvvisa reverenza della gente. Lei non sa cosa è stata la mia vita: da giovane ero così povero che non potevo permettermi di studiare su un vero pianoforte. Avevo disegnato una tastiera sul cartone e mi esercitavo su quella. Solo la mia volontà mi ha tenuto in piedi in quegli anni in cui era difficile fare due pasti al giorno. Poi in altri anni ho dovuto sopportare la derisione dei colleghi che mi vedevano andare in giro colla carta pentagrammata sempre in mano per trascrivere un canto popolare, un canto d’uccello o l’inflessione di una frase pronunciata da un passante per strada… anni in cui il mio lavoro veniva deriso e si diceva di me che ero diventato un’autorità sul canto popolare, ma come compositore ero un disastro. Poi sono arrivati gli anni dell’affermazione, ma sono stati anni duri pure quelli. Mi cambiavano le partiture, me le addolcivano. Le eseguivano e le stampavano diverse da come le avevo concepite. Finché tutto questo succedeva io lottavo, ed ero vivo. Adesso che vedo le mie opere eseguite all’estero mi sembra di essere a un passo dalla morte perché non devo più lottare. Le suonerà assurdo, Kamila, ma è così. Kamila -scusi se ripeto il suo nome, mi piace così tanto che me lo ripeto per farmelo risuonare nella mente- ascolti: so bene di essere vecchio e bizzarro, ma mi permetta almeno di corrispondere con lei.

L’ho vista alla prima della mia Sinfonietta, l’altra sera. Aveva uno sguardo che conosco: lo sguardo di quelle creature che sono come fiumi troppo carichi di acqua, che non sanno dove versarla. Lo sguardo delle creature ricche di una ricchezza interiore sconosciuta ai più, che cercano nel mondo un fratello, un amico, qualcuno con cui condividerla. Lei era una bellezza senza tempo in abiti di ragazza moderna, era sole e notte, era la sera malinconica e il mezzogiorno. Emanava un tenero calore, un senso di fraternità, e al tempo stesso appariva irraggiungibile. Lo so, mi sto rendendo ridicolo – è ridicolo e assurdo ciò che affermo. Eppure, Kamila, io so che lei mi capirà, non foss’altro perché ha un animo buono, e non vorrà dare un dispiacere a un suo ammiratore. Mi permetta di essere suo amico.

Le allego poche pagine di musica, Kamila. Le ho composte pensando a lei. Dovrebbe essere un quintetto di fiati, e se lo porterò a termine lo intitolerò Gioventù. Lei, cara amica, è la mia nuova gioventù ed io brindo all’esser giovani insieme a lei in questo pugno di note. (Non si meravigli della mia sicurezza nel mandarle della carta da musica: ho ascoltato i suoi commenti, l’altra sera, e sono i commenti di qualcuno che conosce la musica. A tal proposito le domando: cos’è che non l’ha convinta del quinto movimento della Sinfonietta? Sa che io lo considero il migliore dei cinque proprio per la sua natura molteplice, per quel “pandemonio di emozioni diverse” che lei mi rimproverava come un difetto? Ho immaginato la fine di una guerra, quando le persone gioiscono per il ritorno a casa e però sono tristi per gli amici perduti, e a volte sentono che con il ripristino della pace la loro stagione eroica è finita, la loro giovinezza passata. Questo è il “pandemonio di emozioni diverse” che ho voluto raffigurare. Mi comprende?

Ma, cara Kamila, le ho scritto anche troppo. Mi scriva lei.

Mi dia questa gioia.

Il suo Leoš

**

Brno, 18 febbraio, 1926

Caro Leoš, che bella sorpresa la sua lettera.

Ha certamente il mio consenso a scrivermi, ed io le risponderò. Mi creda, la sua amicizia mi lusinga e la differenza d’età non mi intimorisce. Oggigiorno, la sua poi non è un’età così avanzata come poteva esserlo cinquant’anni fa. Mi addolora invece il suo presentimento della fine. Mi creda se le dico che l’ho provato spesso anch’io, pur essendo giovane, e che l’ho provato anche negli anni della fanciullezza: una strana convinzione di non essere fatta per durare, un presagio di morte precoce… Ma, mi creda, non è nulla più che una sensazione. Lei sta combattendo ancora, l’affermazione della sua musica è appena iniziata e la aspettano altre battaglie decisive. Non deve più suonare su pianoforti di cartone, ma ha da battersi per ripristinare le versioni originarie delle sue partiture. La so un uomo molto vitale, non perda la sua energia. La ringrazio della musica che mi ha inviata, la considero un grande dono. Conosco un poco la sua produzione musicale, soprattutto quella per pianoforte, ma non posso dirmene un’esperta. Mi ha sempre affascinato, in essa, l’impasto di accenti romantici e di bruschezze tipiche della musica moderna. Poche musiche sono altrettanto slave della sua, intessuta di quelle variazioni repentine d’umore che sono tipiche della nostra anima slava. Mi scusi la brevità della missiva, alcuni doveri domestici incombono su di me, ma la prossima volta le prometto che mi diffonderò maggiormente.

Con grato affetto la sua Kamila

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Brno, 19 febbraio, 1926

Cara Kamila, sì, è un’idea nuova di musica quella che perseguo, e forse un’idea nuova dell’arte. Vede, io credo nella Realtà. Credo che sia più ricca e più fantastica di qualsiasi immaginazione. Ascolti un uomo che parla: non ha una sua musica? Ogni persona che parla ne ha una diversa: uno ha una voce pacata, un altro parla con enfasi, un altro a scatti… e aggiunga a questo le varietà degli accenti locali, la musica specifica di ogni lingua. Ecco, io ho deciso che anche quella è musica. Ho deciso che i rumori della vita quotidiana sono musica. L’orchestra della mia Sinfonietta non è l’orchestra classica: è un’orchestra che si sforza di rendere i suoni della vita reale. Le melodie della Sinfonietta sono melodie che si sforzano di rendere quello che noi ascoltiamo nella vita, tutta la musica che ci passa per le orecchie senza che neanche ce ne accorgiamo.

Lei non ha idea di quanta bellezza sia rimasta esclusa dalla nozione tradizionale di arte. Ho cominciato col canto popolare quando il canto popolare era ancora considerato cosa volgare. Adesso sono arrivato quasi alla fine della vita a teorizzare una rivoluzione nella musica. Anche il modo in cui le sfumature espressive si presentano nella musica tradizionale è tutto sbagliato. Lei ascolta una melodia lirica, poi un tema eroico, poi ancora delle variazioni sul tema eroico… Nella vita reale non accade così, non è vero? Provi a fermare quello che le passa per la testa in questo istante. Non sarà così ordinato, preciso, strutturato. Somiglierà piuttosto a quel “pandemonio di emozioni contrastanti” che aveva ascoltato alla fine della Sinfonietta. Lei probabilmente è incuriosita e affascinata dalle mie teorie, e al tempo stesso le trova folli, è desiderosa di parlarne con me ma trova assurdo questo vecchio che le scrive… Questo è esattamente ciò che intendo, Kamila. La realtà non si presenta mai con una faccia sola. Si presenta sempre molteplice, grezza, sfaccettata, come in quei quadri moderni dove lo stesso oggetto è visto da prospettive diverse. Accusano noi moderni di essere incomprensibili, di esserci allontanati dal gusto del pubblico. Ma è assurdo: noi moderni stiamo riavvicinando l’arte alla realtà, proprio il contrario. Il pubblico dovrebbe sentirci più vicini!

Ma mi scusi, mi sono lasciato prendere la mano dalle mie teorie e non l’ho nemmeno ringraziata di aver risposto alla mia prima lettera. Sono così felice che questa corrispondenza continui! Lei mi ha più rivisto, dopo la sera della Sinfonietta? Io l’ho veduta per caso in farmacia. Era disinvolta, di una disinvoltura che ammiro perché non l’ho avuta mai. Io sono un orso, cara Kamila, non ho l’arte dello stare al mondo. Parlo pane al pane e vino al vino fino ad inimicarmi le persone. Lei possiede l’arte dello stare al mondo mantenendo un animo limpido, e questa è un’arte che non avrò mai. Un secolo fa sarei stato inaccettabile sia come artista che come uomo, ma noi moderni per fortuna siamo meno fiscali. Non mi biasimi se dico “noi moderni” io che sono nato sessantotto anni fa. Come le dicevo ho ancora fame di vita, di lotta, di amore. Sto vivendo una nuova giovinezza, anzi una vera giovinezza, senza gli inconvenienti della prima. Nella prima non siamo ancora noi stessi, siamo dei cercatori di noi stessi. Chi ha la fortuna, come me, di vivere questa seconda giovinezza, questa lunga estate di San Martino, la vive con lo slancio dei giovani ma con la consapevolezza dei vecchi. Noi nuovi giovani siamo nella nostra essenza, cara Kamila, così come l’arte nella sua seconda giovinezza è puro stile, ha raggiunto la sua cifra più vera. Chi le scrive non è un folle, Kamila, ma un uomo più che mai pienamente in se stesso.

Adesso mi dica di lei, mi dia quest’altra gioia.

Il suo devoto Leoš

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Brno, 23 febbraio, 1926

Caro Leoš, la sua richiesta mi mette in difficoltà, perché non sono abituata a parlare di me stessa. Sono una donna riservata di trentasette anni, di buona famiglia e senza un marito. Perché senza un marito è presto detto: sono stata a lungo fidanzata con un uomo di un rigore tale da non accettare nemmeno i compromessi naturali in un fidanzamento. Un asceta. Come tutti gli asceti, era incapace di valutare fino in fondo le sofferenze che la sua purezza infliggeva agli altri. E così è accaduto che io sia stata abbandonata. Mi spaventa questa nostra corrispondenza perché la relazione con l’asceta si è svolta perlopiù proprio così, per lettera. Ci siamo incontrati pochissime volte, e ogni volta è stato doloroso. Leoš, lei è sposato e ha conosciuto anche lei un grande dolore. So di sua figlia, ho ascoltato la bellissima musica che le ha dedicato. Mi sono consegnata a questa amicizia per la bellezza della sua musica e anche per quella delle sue lettere. So che lei scrive. Mi hanno detto di certi suoi saggi sulla musica popolare della nostra terra, ma chi la conosce afferma che molti scritti se li tiene nel cassetto. Perché tanta segretezza? Lei si comporta come un uomo abituato a non essere compreso.

Non so cosa le faccia supporre di poter essere compreso da me. Io non sono un’artista, sono solo una persona comune che ama l’arte, senza averne una conoscenza più che dilettantesca. Sono una donna non più giovanissima che ama la vita e che preferisce la vita all’arte. Vede, nella vita è sempre valido quell’antico detto di Laozi: “Meglio accendere una candela che maledire le tenebre”. Nell’arte, vi sono alcuni che maledicono così splendidamente le tenebre, che noi vorremmo non venisse mai accesa quella maledetta candela.

E qui sta il punto: chi vive nell’arte e chi vive nella vita sono conciliabili? Possono essere amici, stare insieme, sviluppare un rapporto sereno? Le sue teorie sono affascinanti, eppure non riesco a non pensare che, portate avanti, conducano all’annullamento stesso dell’arte. Quello che lei chiama irrealtà e insincerità è forma. L’arte ha bisogno di forma, ed è per questo che i sentimenti e gli accadimenti in essa hanno un ordine, mentre nella vita non ce l’hanno. Lei vuole sgretolare questa forma in nome della realtà e della verità, ma non crede che il suo idealismo alla lunga possa portare solo a un’anarchia senza costrutto? Ciò non accade nella sua musica perché lei ha il genio della musica. Ma cosa accadrebbe in menti meno elevate? Un giorno, qualcuno potrebbe pensare che si possa fare musica lanciando i dadi. Leoš -come vede, ripeto anch’io spesso il suo nome- lei mi incuriosisce, mi sorprende, e al tempo stesso mi spaventa nel profondo. Mi ha incontrata in farmacia, mi ha riconosciuta, e non mi ha detto niente. Io non sono un’eroina letteraria, e nemmeno una figura statuaria da contemplare. Non sono un’opera d’arte, ma una donna viva. Non voglio venerazione, voglio relazioni umane. Riesce a comprendermi? Il suo Quintetto -o almeno l’incipit che mi ha dato- suona molto bello e fanciullesco. Lei sta vivendo davvero una seconda gioventù. Possa questa gioventù essere appassionata ma non sconsiderata. La saluto con affetto e timore Sua Kamila

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Brno, 25 febbraio, 1926

Cara Kamila, conosce il jazz? È la musica dei neri d’America. Una musica molto diversa dalla nostra, dove un gruppo di suonatori improvvisa su un tema di partenza creando effetti di contrappunto spontaneo. In questa musica tutto fa parte dell’esecuzione: non solo il tema e la sua elaborazione, ma l’atmosfera della sala, i fischi del pubblico, le note sporche, i cenni che i musicisti si scambiano tra loro… Anche in Oriente si considera parte del fatto musicale il vento che soffia, l’uccello che canta durante l’evento sonoro. Forse ci stiamo muovendo verso un modo meno occidentale e più universale di fare arte. Anche i pittori che mettono la carta da parati dentro il quadro fanno qualcosa di simile. Fanno irrompere la vita vera nel quadro. Lei mi chiede se obbedire al reale significhi negare che l’arte abbia una forma. Io non credo. Anche il reale obbedisce a delle leggi, quelle della fisica, che sono rigorosissime.

Può darsi che domani qualcuno comporrà lanciando i dadi, come dice lei, ma può anche darsi che comporrà usando il linguaggio sublime della matematica. Io non sono che un precursore e i miei non sono che tentativi. Altri dovranno sviluppare il discorso che ho aperto. Kamila, non sono un artista ascetico, né un uomo rigoroso, tantomeno un essere astratto che vuole intrattenere con lei una relazione quasi da voyeur. Lei scambia il mio sforzo di essere discreto con qualcosa che non mi appartiene. Io sono un uomo terrestre. Il dolore, quello sì, lo conosco. Della morte di Eliza non riesco a dire parole: ha ascoltato le mie note, lì c’è tutto quello che deve sapere. Ma ci sono altri dolori minori.

Ho una moglie, mi dice. Una moglie che a volte nemmeno mi riconosce e che dal 1909 non mi desidera più come uomo. La psichiatria più moderna non ha potuto niente contro la sua malinconia: una malinconia che ha sempre vinto contro tutti gli ostacoli che l’amore cercava di porre. Diverse volte è stata sul punto di lasciare questa terra, diverse volte l’ho tirata fuori dal fiume. Lei è tornata nella vita come si torna a un dovere. La cosa che più mi annienta è il suo silenzio. Mi faccio in quattro, in otto, in dodici -mi faccio a pezzi per cercare di ravvivarla: lei tace e segna solo i miei errori per rimproverarmeli poi quando parlerà. La mia musica non le interessa, le bastano i soldi che porto a casa con la mia musica. Questa, Kamila, è la mia vita più segreta, quella in cui non ci sono concerti, quella che soffoca sul nascere tutte le melodie. Ciononostante sono rimasto accanto a mia moglie, servizievole e castamente fedele.

Poi è arrivata lei, Kamila, come il vento che spariglia l’ordine in una stanza a fatica rigovernata. Lei, come la Moldava che sgorga allegra fra le rocce. Lei, come la Moldava di notte, quando rispecchia troppo carico di stelle. La mia nuova gioventù. Le scriverò se vuole che le scriva, le parlerò se vuole che le parli, la guarderò negli occhi se vuole che la guardi negli occhi. Se cerca un amico, io ci sarò. Comporrò musica per lei. Se cerca un confidente, io la ascolterò. Se cerca un allievo, io imparerò da lei. Se vuole giocare a scacchi, io sarò Capablanca.

E se avrà la bontà di volermi semplicemente quale sono, io sarò il suo Leoš.

Giorgio Galli

*I testi sono tratti da Come il grano muore, inedito epistolario immaginario di Giorgio Galli, ispirato all’ultimo amore di Leoš Janáček che dettò al musicista il suo celebre Quartetto n. 2, Lettere intime.

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