
Sindibad il marinaio era rientrato in casa da un pezzo, l’ultima occhiata per Mahdiyya, la favorita delle favorite, che ogni sera danzava e cantava per lui diffondendo profumi nell’aria. Per tutta la notte il suo splendido palazzo restava avvolto da quei profumi. Ma, quella notte, il suo sguardo cambiò come cambiarono le notti che seguirono.
Quella notte, si era disteso sui suoi cuscini di seta, in silenzio. Non toccando quasi cibo. Distrattamente accarezzava i suoi tre cani, mentre,davanti a lui, Sindibad, il facchino, gli sorrideva impacciato, incerto se andarsene o restare. Perché di solito lui,il marinaio, raccontava, gli raccontava sempre qualcosa di nuovo dei suoi viaggi, aggiungendo ogni volta dettagli anche minimi alla trama centrale della narrazione. E gli occhi del facchino, meravigliati, desideranti, invidiosi, non smettevano mai di fissarlo.
Quella notte,era molto stanco, in preda a un malessere così visibile che la terza moglie, la più sensibile e apprensiva, venne a informarsi, con un bisbiglio, della sua salute.
Sindibad il facchino non aveva occhi e orecchi che per lui, il marinaio. E più il marinaio taceva, e più l’altro prendeva il coraggio di guardarlo dritto in faccia con quegli intollerabili occhi da predatore, intollerabili come tutto del facchino era intollerabile: il viso rugoso e scialbo, la barba incolta e sporca, le mani rozze e deformi e la grande gobba che gli era cresciuta a forza di sopportare pesi e rinunce, bagagli e delusioni.
E più il tempo passava e il marinaio taceva, più gli orecchi del facchino avevano fame di parole, fame del suono della sua voce ed i suoi occhi avevano fame di visioni che gli entravano nella carne e nel cervello per non uscirne più.
Quella notte, poco a poco, la grande inquietudine del marinaio si mutò in angoscia, simile a una sorta di paura.
Ad un suo cenno, Mahdiyya aveva smesso di danzare, le mogli il loro gaio e sommesso cicaleccio, i servi andavano e venivano in punta di piedi. Si era alzato di colpo, imboccato di corsa le scale ricoperte di soffici tappeti, guadagnato le stanze private come in fuga.
Adesso stava supino sul letto, immobile, le membra pesanti, gli occhi spalancati.
Era forse lo specchio che rivestiva la parete a tenerlo sveglio? No, lui era abituato a specchiarsi, a raddoppiare in altezza e ampiezza la sua bella stanza, a godere due volte del corpo di Mahdiyya, sia quando la teneva stretta a sé, sia quando non era che un’immagine riflessa, lontana e incorporea. Vi sprofondò sempre di più lo sguardo, cercando in quella luce di cristallo qualcosa che forse già intuiva ma che stentava a prendere forma.
Restò così finché un impercettibile sussurro cominciò a far vibrare le tende del letto che si misero a frusciare. Poi anche i pesanti, preziosi tendaggi che avvolgevano la stanza si mossero in un senso e nell’altro: e di colpo, un vento di burrasca rovesciò le ampolle d’oro dai tavolini e tutto il vasellame sparso sulle cassapanche. Tremarano i forzieri d’argento con il loro contenuto, e i cani, accovacciati sotto il letto, mandarono insieme un lungo latrato.
Sindibad non si mosse, non corse alla finestra, non chiamò i servi. Sapeva che fuori tutto era perfettamente tranquillo e non aveva nulla da temere: luna, stelle, cielo, orti e palmeto, ogni cosa era al suo posto nell’aria sospesa dell’estate. Il vento era solo lì, nella sua stanza e in nessun altro luogo, mentre lo specchio che rifletteva l’immagine di un uomo mollemente sdraiato, si incupì, fino a cancellarlo, e lentamente, qualcosa simile a un profilo di nave, con la poppa sollevata, le vele candide e gonfie, emerse da quella liquida oscurità, emettendo uno strano bagliore, Il pavimento oscillò, spingendo sgabelli divani e cassapanche al centro della stanza: il letto scricchiolò. Sindibad, allora, chiuse gli occhi.
Era giunta l’ora di rimettersi in mare.
*
Il volo radente di uno stormo di gabbiani s’impigliò nelle sartìe con strilli simili a gemiti umani, qualche flutto si alzò qua e là sugli altri insieme a brevi raffiche di un vento che nessuno riuscì a capire da dove venisse. Ci fu un attimo di silenzio, quel silenzio che non sembra mai finire e precede il segnale d’inizio di una battaglia. Fu interrotto dagli ordini del capitano. Seguì, all’unisono, l’urlo potente della ciurma. Gli uomini presero a correre per tutta la nave, ognuno alla sua postazione difensiva.
Infine la tempesta esplose con un fragore tremendo e in un lampo squarciò vele, fece a pezzi remi, spazzò via timone e albero maestro, rovesciando valanghe d’acqua ribollente fin giù dentro le stive. Sindibad fu sbattuto sulla tolda da una raffica gigantesca, piagandosi in tutto il corpo, mentre vento e marosi si accanivano su di lui.
Simile all’assalto improvviso dei pirati, a uno scontro con le balene, agli attacchi imprevisti della natura o degli uomini in cui si correva il rischio di soccombere, l’arrivo della tempesta segnava il punto d’incrocio di due sguardi: quello degli occhi spaventati di Sindibad il marinaio incontravano, a viso aperto, i piccoli occhi maligni di Sindibad il facchino. Seguiva un attimo che sembrava un secolo, in cui tutto rimaneva sospeso, in bilico tra precipizio o salvezza. Ma, una volta scongiurato il pericolo, trovandosi fortunosamente aggrappato a un legno o sopra una zattera che lo conduceva in salvo, il marinaio subito si dimenticava del facchino, di quegli occhi terribili che si allontanavano da lui come sempre si allontanano i venti e le tempeste dal mare, lasciando infine spazio alla bonaccia: e allora cominciava a pensare che tutto quanto gli era accaduto lo avrebbe raccontato al suo ritorno a casa, davanti alla sua gente, ma in particolare lo avrebbe raccontato a lui, a Sindibad, l’eterno invitato. E ne pregustava il piacere.
Aveva sempre fatto così: sia quando, prigioniero del sultano Abd As Samad, poco mancò venisse impalato come un traditore o quando restò sepolto vivo in una grotta e si nutrì del cibo per i morti o naufragò su isole sconosciute o camminò solitario aggredito dalle febbri e dai ladri. In tutti quegli attimi di smarrimento in cui il tempo sembra aprire una voragine e ci si chiede: perché sono qui? dove sto andando?, ecco che gli appariva lo sguardo ferito di Sindibad, il facchino, il suo volto grigio, il suo sorriso stentato e ironico. E allora, più caparbiamente, riprendeva il viaggio, raddoppiando con rabbia commerci e imprese, barattando instancabilmente mercanzie, uomini e navi per non dover incontrare più quello sguardo.
*
Ormai da tempo, nella nicchia sottoprua che raggiungeva alla sera ogni volta più stanco, filtravano voci e odori familiari – le cantilene delle mogli al bagno, i movimenti flessuosi di Mahdiyya, il suo corpo chiaro e le sue carezze, l’affaccendarsi dei servi, i richiami dai giardini, i volti degli amici, gli scorci della città natale con i suoi vicoli freschi e animati, il tepore del letto di casa e l’abbaiare festoso dei suoi cani. Sentimenti di irresistibile dolcezza – così estranei alla nave e al suo presente – contro cui si scopriva sempre più indifeso. Insieme a quei sentimenti, cominciava a chiedersi quanto tempo fosse passato da quando era partito.
Era allora giunto il momento di tornare.
*
Splendente di luci e di fontane zampillanti, il palazzo di Sindibad il marinaio era tutto spalancato per mostrare a chiunque le sue meraviglie. Per sette giorni e sette notti, lui, ininterrottamente, raccontò. Il palazzo traboccava di gente di ogni età e condizione e chi non era riuscito ad entrarvi si accalcava nei giardini, arrampicandosi dove poteva, su muri, alberi e cancelli, perché nessuno voleva perdere una sola parola del racconto.
C’erano anche il Gran Visir in persona, con la corte al completo di ministri, segretari e valletti e poi tutti gli amici, nobili e meno nobili, mercanti di terra e di mare, parenti stretti e lontani, tutte le mogli, le favorite e gli innumerevoli figli. Ma Sindibad non se ne curava. Seduto al centro dell’immensa sala, non aveva occhi che per lui, l’eterno invitato, che gli stava di fronte e, fisso, lo guardava. A voce alta, con frenesia e passione, nel silenzio assoluto dei presenti che quasi non respiravano, Sindibad il marinaio narrava le sue avventure straordinarie. E non appena lo coglieva la stanchezza e le fiamme dei bracieri davano segno di affievolirsi, i servi si affrettavano a ravvivarla con delle grandi torce mentre lui si rinfrancava con una coppa di vino che Madhyya gli porgeva, premurosa. E subito riprendeva a raccontare : e più descriveva gli avvenimenti e le meraviglie incontrate, le pene sofferte, le prove superate e quanto felice fosse stato di questo e altrettanto dei pericoli e dei patimenti subìti se, appunto, ora poteva stare lì a raccontarli e a riviverli facendoli rivivere negli occhi e nel cuore degli ascoltatori, e più gli pareva che Sindibad il facchino s’ingrigisse, s’incurvasse, vinto da un peso invisibile.
Al settimo giorno, Sindibad smise di raccontare. Le ultime sillabe gli morirono sulle labbra in un bisbiglio incomprensibile, e pallido e stremato, si abbandonò sul divano. Chiuse gli occhi.
Di colpo si spensero le luci festose del palazzo, l’acqua delle fontane cessò di zampillare, si tirarono le pesanti cortine come a fine spettacolo e gli spettatori – increduli, ammirati, invidiosi, stupefatti, e chi soltanto felice di quanto aveva udito e imparato – tornarono a casa. Le mogli e i figli si erano addormentati da un pezzo, anche Mahdiyya si ritirò insieme ai servi.
Nell’immensa sala, deserta e buia, l’uomo di mare e l’uomo di terra restarono soli, l’uno di fronte all’altro.
*
Il giorno dopo, quando i servi andarono a svegliare il loro padrone, scoprirono, rannicchiato nel letto, un vecchio dal viso rugoso con una grande gobba. Era morto.
Lo specchio della stanza non mandava più bagliori.
(1985)