Silvina Ocampo è stata una delle più note e importanti scrittrici latinoamericane del secolo passato. Insieme al marito Adolfo Bioy Casares e al grande Jorge Luis Borges compilò l’Antologia della letteratura fantastica, libro destinato a diventare a pieno titolo un classico per gli amanti di questo genere letterario. Vanta una vasta bibliografia di ottimo livello – in parte tradotta anche in Italia – tra romanzi, racconti e poesie; e inoltre, e questo è l’aspetto che ci riguarda più da vicino, diversi libri per ragazzi. La naranja maravilliosa è uno dei tanti, è la prima volta che appare tradotto in italiano e dobbiamo la sua bella traduzione – oltre alla proposta al nostro giovane pubblico – a Francesca Lazzaratto che ci ha fatto scoprire questo lato da noi finora trascurato di Silvina. Le sedici favole che compongono il libro sono tutte (o quasi) molto belle, estremamente raffinate, con un afflato poetico tra l’ironico e il surreale. C’è sempre la sottile ambiguità che fa sfuocare la verità in finzione e viceversa, il sogno che scivola nella realtà e la realtà che assume connotazioni oniriche, le “morali” qualche volta sono alla rovescia o totalmente assenti, il senso e i significati sfuggenti, la trama delle storie divagante e sottile. Stupisce che una scrittrice così sofisticata si sia messa a scrivere per i ragazzi e Italo Calvino le attribuiva infatti «tranquillità e impassibilità, identiche a quelle dei bambini, al punto da non escludere uno sguardo limpido e un sorriso leggero». È il sorriso, leggermente ironico, e lo sguardo limpido, decisamente distaccato, che può pienamente apprezzare e godere chi già possiede una certa (e adulta) esperienza di lettura; chi, insomma, ha varcato la soglia di una data età (approssimativamente dopo i 10 anni). Non a caso il sottotitolo definisce il libro, un libro di “fiabe per bambini grandi e per grandi bambini”. La linea di demarcazione è sfumata come sfumata e un po’ inafferrabile è la piacevolissima scrittura della Ocampo, particolarmente piacevole all’intelletto, un po’ meno ai sensi, alla sfera delle emozioni. Forse dipenderà, mi sono detta, dal fatto che la Ocampo è argentina, gli scrittori argentini sono nel mondo della letteratura latinoamericana i meno emotivi, sanno guardare le cose da una certa altezza, con una buona dose di estraneità, che permette loro di giocare a freddo con le parole e le vicende narrate. Anche qui si parla di estraneità – quella degli animali, ad esempio, e in particolare di un pesce misterioso e indisponente (Il Pesce sconosciuto), diventato il padrone un po’ sadico del bambino Rafael, costretto a obbedire a tutti i suoi capricci finché solo il caso (che è svagato, come sappiamo) risolverà l’inquietante legame tra i due. È infatti il caso, l’imprevisto, una stranezza dislocante – simile a una boutade salottiera – a inventare talvolta gli esiti delle storie della Ocampo. In Viviana la curiosa, che prende forse un lontano spunto da L’usignolo, celeberrima fiaba anderseniana, c’è più spessore di senso e una” morale”, anche se più apparente che meditata. È la storia di una bambina dalla vivace curiosità, che vuole conoscere le cose della vita – ma le sue buone intenzioni vengono frustrate da continui disastri e l’immagine della sua inadeguatezza la induce a preferire oggetti senza vita, artificiali, come un uccello meccanico «”Non ti piacciono le persone?” le chiede l’uccello meccanico. “No” – risponde Viviana – “non mi capiscono e io non le capisco”»). Forse vivendo l’artificio come surrogato della realtà e della natura (ma su questo ci sarebbe molto da dire e discutere) questa bambina che immagino silenziosa – si dice che l’autrice, da bambina, fosse così – si rifugia nel mondo inanimato e slontanante dei libri per non scontrarsi col suo presente, e con la sua inadeguatezza. (Mi chiedo se quella bambina che si trastulla in mezzo a finzioni di ogni tipo non assomigli, per certi versi, alla bambina o al bambino che oggi si rifugia nei videogames, nei serials, nel mondo virtuale dei PC e che quindi soffre inconsapevolmente di problemi di comunicazione. Con la differenza che, una volta, solo i libri influenzavano l’immaginario infantile, e quello di Viviana, è l’immaginario di una bambina appartenente alla classe colta e benestante, mentre ora, sono i media a catturare la loro anima profonda).
Alla curiosa Viviana gli adulti predicono un futuro di saggezza, di conoscenza. Andando avanti nella lettura, anche noi siamo veramente curiosi di sapere come lei la raggiunga. Un po’ la bambina è consapevole e un po’ no di giocare con un animale-giocattolo, poi decide di andare a fondo della verità, conoscere il mistero del suo canto:«Il tuo canto è nella pancia o nella gola? – gli chiede – Se non me lo dici finirò per credere che sei un giocattolo e non voglio che tu lo sia». Poi smonta il delicato meccanismo, lo apre con la lama di un temperino, raggiunge il suo cuore. E così “uccide” il giocattolo. L’uccello finto tornerà a cantare con voce naturale e si trasformerà in un uccello vero (e questa è la morale, un po’ scontata, se vogliamo, simile a quella di Pinocchio che smette di essere un burattino per diventare un bambino in carne e ossa) ma questo accade non attraverso quell’atto conoscitivo che allude a un processo di crescita, ma più in là nel racconto e, diciamolo pure, gratuitamente, grazie a un aiuto magico esterno e casuale. Tutto è miracolosamente facile come per quei bambini che vivono “virtualmente” la vita, quella che “sembra” palpitare dentro uno schermo o un monitor. Qual è il confine tra realtà e fantasia? Proprio da una scrittrice come la Ocampo, non lo sapremo mai, maestra com’è di ambiguità a cui piace oscillare su questo ammaliante confine, simile alla sua Viviana che sa e non sa quanto il suo giocattolo (la metafora della scrittura? la vita stessa?) sia e non sia falso o vero.
Ancora tra apparenza e realtà si dibattono le due protagoniste de L’arancia meravigliosa, la fiaba che dà il titolo all’intero libro. Tante sono le arance – quante sono le sfaccettature della realtà – ad attrarre irresistibilmente Claudia e Virginia che si riconoscono in loro come in uno specchio. Ma ecco il dubbio: «…Claudia stava per mordere la sua, quando Virginia la trattenne: “Sarà autentica, sarà velenosa, sarà uno scherzo?”». Ad ogni morso le bambine subiscono una trasformazione: una diventa splendente di ornamenti e orpelli, arricchendosi di vanitas esteriori ma restando intellettualmente povera, mentre l’altra esibisce, ostentatamente, la propria cultura, la propria intelligenza; poi si scambiano le arance, mescolando le rispettive virtù e trovando, sembra per sempre, la formula alchemica della perfezione. “Sembra” perché così non è e neppure la fiaba si conclude a questo punto. Avrebbe una “morale” troppo semplice e sappiamo che la Ocampo – ce lo ha dimostrato in tutti i modi – è scrittrice mentale, amante delle complicazioni. L’”effetto arancia” svanisce e le due bambine sono costrette a ricominciare il gioco: questa volta le arance sono solo due ma, come in ogni fiaba che si rispetti, ciò che appare non è e viceversa. «L’arancia più piccola e brutta risultò la migliore, perché la sua magia era permanente: non si finiva mai di mangiarla, perché man mano che la mangiavano ricresceva. Così Claudia e Virginia tornarono alle loro case e furono felici, mangiando uno spicchio tutti i giorni». L’arancia apparentemente piccola e brutta è metafora misteriosa della quotidianità della vita? Se così è, forse è per questo che la Ocampo non fa finire qui la sua favola, forse vorrebbe continuarla, con pretesti vari, all’infinito… E infatti inventa ulteriori complicazioni, se non addirittura piccoli manierismi: le due protagoniste non sono soddisfatte neppure così – come nella vita non si riesce quasi mai ad esserlo. «Voglio tornare a essere di nuovo povera, di nuovo brutta…» diceva Claudia…E Virginia: «Voglio tornare a essere stupida, a essere un po’ balbuziente…. E la fiaba finisce con un guizzo di fine intelligenza: «Ma alla fine Claudia e Virginia si abituarono agli svantaggi dei vantaggi e furono felici».
Sapranno, i ragazzi del millennio in corso, distinguere tra realtà e finzione se qualcuno non dà loro qualche valido strumento per farlo e con una certa fermezza? E questa distinzione, nell’era virtuale, fino a che punto ha ancora valore e senso? I ragazzi formeranno il loro immaginario sui modelli imposti loro dagli adulti gestori di poteri e verità mediatiche? Certo, non è questa la sede per dibattere questioni del genere ma mi sono sorte spontaneamente girando, come sto facendo, intorno a questo libro.
Girando intorno a un libro sto solo segnando degli appunti, e perciò preferisco tornare a lui e alla letteratura. La letteratura, appunto: sembra un argomento più semplice rispetto agli altri, ma lo sembra soltanto. Torno all’antica domanda se la letteratura sia o non sia vita. E quale letteratura (e vita) per i ragazzi e per quali ragazzi. E se la letteratura per i ragazzi deve o non deve insegnare qualcosa. O se non c’è più nulla da insegnare né attraverso la letteratura né attraverso altri mezzi, a cominciare da quelli mediatici. E infine mi chiedo come certe storie – intendo quelle scritte benissimo come queste della Ocampo – possano essere giudicate dai ragazzi di oggi. Se piaceranno e perché e fino a che punto. Piaceranno solo a chi ama ancora i libri? A chi attinge ancora vita dai libri perché crede ancora in loro? E infine: avranno forse qualche riserva ad amare (e “attingere vita”) da un libro così raffinato – quasi astratto – come questo? Oppure lo leggeranno senza rendersi conto del libro che stanno leggendo, come un fast food da digerire in fretta senza rilevarne il sapore, i sapori delicati?
Una sola cosa ho imparato e l’ho imparata semplicemente guardando i ragazzi che guardano le figure. Più sono piccoli e più li colpiscono i disegni dal segno forte, i colori a tutto tondo, vivaci, solari e densi, come i disegni dei primitivi e come quelli degli espressionisti. Man mano che il loro mondo emozionale si affina e si complica loro si accorgono delle linee più sottili, dei segni e dei colori più tenui e delle sfumature: entrano con disinvoltura nell’inquieto regno del chiaroscuro. Per varcare il mondo del chiaroscuro occorrono dei “passaggi” mentali, occorre che il tempo scorra ma vada verso la profondità e non rimanga in superficie, imprigionato nei confini dell’attualità, a solo ciò che è visibile, a ciò che – subito – sembra ma che, in realtà, non è solo così. È lo spessore, quello che distingue un libro da un altro, la qualità di una vita da un’altra.
Il chiaroscuro è la dimensione letterario-pittorica di questo libro della Ocampo, perché è la dimensione dell’incertezza e della ricerca di un’identità, dove le ombre sono le perplessità e i sogni e le luci rivelano confini e pensieri esatti e dove il falso si mescola al vero, in un impasto inestricabile; ormai siamo troppo smaliziati, troppo addestrati alle complicazioni della vita, alle cose mascherate da qualcos’altro e qualcos’altro mascherato da qualcos’altro ancora, tutte complicazioni tremende di cui sono vittime gli adulti, la loro lingua e, di riflesso, la loro scrittura. Ma al complesso chiaroscuro che cosa seguirà? Già è tra noi e lo vediamo: un unico colore incolore, un blabla uniforme e monocorde, un paesaggio assolutamente piatto in cui la superficie non nasconde la profondità ma è solo e desolatamente superficie.
(2001)
Il testo è stato pubblicato in L.G. Argomenti, 3, 2001, come nota di lettura a: Silvina Ocampo, L’arancia meravigliosa, traduzione di Francesca Lazzaratto, illustrazioni di Fabian Negrin, Milano, Mondadori 2001.
