SEGNI IMITATI. Roger Caillois

Segni imitati*

Roger Caillois

Segni imitati*

Questo testo – come molti di quelli che ho scritto, ma forse ancor più dei precedenti – si sforza di dimostrare che non esiste una radicale differenza tra l’universo e l’uomo, che di esso fa parte.

Quando ho dedicato un libro alla scrittura delle pietre1, è ovvio che assumevo l’espressione «scrittura» nel senso più arditamente metaforico. Non immaginavo potesse esservi la minima possibilità di stabilire un raffronto, anche solo formale, tra dei tracciati fortuiti e dei segni volontari. Non cercavo una somiglianza tra le figure dei minerali e gli alfabeti. Poteva capitarmi, incidentalmente, di sottolineare una similitudine con le calligrafie arabe o gli ideogrammi cinesi, ma si trattava di forme isolate, ornamentali, capilettere piuttosto che lettere. Misconoscevo il carattere completo e ridondante dell’universo, nel quale non c’è nulla che sia privo di ripercussioni. Non capivo, allora, come possano esistere pietre in cui gli accidenti iterativi sembrino imitare, se non proprio le pagine stampate, almeno una tipografia sregolata, selvaggia. Tuttavia si danno apparenze del genere, e a volte tali da illudere, al modo in cui le dendriti di manganese continuano a produrre nella coscienza ingenua l’erronea impressione che si tratti di alghe o muschi fossilizzati all’interno della pietra. Ci sono minerali che, una volta sezionati, presentano superfici cosparse di segni, capaci di introdurre una fallace concorrenza tra le opere della natura e quelle dell’uomo.

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In un negozio di San Francisco, ho acquistato due campioni di una lava che proviene – a quanto mi hanno detto – dalla Valle della Morte, e che prima non avevo mai visto né riprodotta né descritta. I suoi segni grossolani, che si direbbero tracciati a mano, quasi col latte di calce sulla bruma opaca e livida dell’ardesia, sembrano altrettante indicazioni frettolosamente dipinte, pur essendo in realtà semplici incroci mineralogici registrati nella pietra. Ad essi manca, cosa essenziale, l’aspetto rigido, immutabile, ritmico, da manufatto, che è tipico del carattere di stampa. Ma lo stesso non può dirsi per il tipo di granito chiamato, proprio per questo, grafico, la cui sezione, una volta levigata, appare bucherellata da mille figure di una singolare nitidezza, paragonabili ai segni di certi alfabeti geometrici, come ad esempio quello cuneiforme, o ancor meglio ai caratteri ebraici. Perciò un sognatore (o un illuminato) ha potuto congetturare – non so con quanta speranza di convincere – che Mosè, scendendo dal Sinai, avesse fatto riconoscere un blocco di quella pietra come le Tavole della Legge, consegnategli poco prima da Jahweh.

Aste e angoli retti sono fatti qui di quarzo traslucido, incastonato in una ganga opaca. Sembrano altrettanti incavi, perforazioni praticate in una sostanza omogenea e resistente, di modo che la superficie del minerale ricorda quei cartoni che un tempo si facevano passare negli organi di Barberia o nelle pianole meccaniche, e che trasformavano la languida melodia di certi ritornelli in una serie di note stridule, stranamente isolate.

I segni affiorano alla rinfusa sulla superficie della pietra. Sono sparsi: non vi si percepisce nessuna riga o colonna, nessuna disposizione privilegiata. Il tumulto di trattini, cuspidi, piccole schegge a forma di parentesi quadre, bacchette, suggerisce a prima vista che siano stati gettati a caso. Poi qualcosa, nel disordine, fa pensare che forse si tratta di un sistema di segni rubricati, che non sono necessariamente delle lettere, ma che tuttavia costituiscono dei simboli coerenti e associati. Una disposizione corretta, un riordino, li renderebbe allora in grado di trasmettere l’ipotetico messaggio che erano destinati a comunicare. C’è sì confusione, ma non una pioggia di elementi arbitrari e disparati; piuttosto una tipografia mobile, arrischiata, che una malaugurata scossa avrebbe sparso sulla pagina di pietra. Mi chiedo da dove venga questa duplice impressione, che induce a presumere, in una simile anarchia, la verosimiglianza di un alfabeto impossibile.

In primo luogo, immagino, il fatto che i segni siano pressappoco delle stesse dimensioni. Non si constata tra essi, dal punto di vista della misura, differenza maggiore di quella che separa una lettera minuscola dalla maiuscola corrispondente. Sembrano soprattutto varianti diverse di un unico modello, semplice e trasformabile, aspetti o frammenti di una figura definita. Facili da tracciare, da riconoscere e da moltiplicare, non offrono nulla che non sia breve e rettilineo. Per quanto segmenti e angoli siano orientati in una direzione qualunque, non si ricoprono né si aggregano fra loro: non c’è nessun accavallamento, nessuno scompiglio. Inoltre i tratti, piegati a gomito una volta, di rado due, e comunque mai più di due, sembrano, se esaminati con attenzione, i resti dell’armatura, ridotta ai soli spigoli, di un qualche poliedro nano, che fosse stato spezzato da un urto o, meglio ancora, scomposto da un abile taglio in pezzi tutti diversi e caratteristici, così che nessuno possa essere confuso con gli altri, pur conservando con loro una parentela visibile. A un simile sistema di segni non mancherebbe, per essere scrittorio, che di corrispondere termine a termine con i suoni fondamentali di un linguaggio: allora le impronte naturali, al pari dei disegni concertati, diverrebbero alfabeto e potrebbero perciò anch’esse, combinandosi, enumerare la duplice infinità dei dati del mondo e dei fantasmi dell’immaginazione.

L’impressione di disordine contraddice quella di totalità. Il disordine, d’altronde, nasce più da una differenza di densità nella ripartizione dei segni che dalla loro struttura o disposizione. Qui essi si stringono gli uni molto vicino agli altri, mentre altrove restano radi. È facile trovare dei segni che si ripetono, dato che sono ben lungi dall’essere così vari come si era pensato inizialmente. In seguito ci si accorge che non sono neppure orientati a caso: i bastoncini di quarzo che li costituiscono formano degli allineamenti paralleli, benché intermittenti, una specie di quinconce ineguali. L’esame della pietra rafforza, invece di dissiparla, l’analogia con la pagina stampata…

… con una pagina stampata perennemente indecifrabile. Ma almeno quest’illusione aiuta a capire meglio cos’è un sistema di scrittura, mostra che le lettere di un qualsiasi alfabeto, e persino i segni di una grafia non alfabetica (in cui dunque l’alfabeto tende a coincidere col dizionario), docili a una strana permanenza, obbediscono a una condizione che in verità non è affatto indispensabile per la funzione che svolgono. Sono apparentati, e la collezione delle loro figure offre chiaramente una serie indiscutibile, cioè una scrittura originale. Nulla, in fin dei conti, impedirebbe di raccogliere un alfabeto composito, un miscuglio di quelli in uso o caduti in desuetudine, che utilizzasse dei caratteri presi a prestito uno dall’alfabeto latino, il secondo dal cirillico, i successivi dall’arabo, dall’ebraico, dal gaelico, dal siriaco, dalla devanagari, dal fenicio, e persino dei segni inventati che non ricordino nulla di conosciuto. L’operazione sarebbe facile: gli alfabeti sono molto più numerosi delle lettere comprese in ciascuno di essi.

Ma il risultato non sarebbe soltanto assurdo: sarebbe mostruoso, perché romperebbe l’unità latente, quasi segreta, che assicura a ogni alfabeto il suo stile, proprio come le carte di uno stesso mazzo o i pezzi di un qualunque gioco di scacchi possiedono il loro. Un’unità del genere, di ordine architettonico, non è affatto obbligatoria per coprire la varietà dei timbri e dei principali punti di articolazione della voce, ma di fatto spetta proprio a tale unità conferire a ogni scrittura il suo aspetto caratteristico. I segni del granito grafico, per il fatto che presentano un’identità di fattura, richiamano in maniera irresistibile un alfabeto, benché evidentemente non possiedano alcun valore fonetico che consentirebbe di risalire, attraverso di essi, non dico ad un qualche linguaggio, ma neppure a un minimo suono, o grido.

Da dove arriva, dunque, questo simulacro di simboli concertati? Il pullulare del quarzo nel minerale a cui è associato non si è prodotto per caso, ma seguendo le leggi delle loro rispettive strutture: il quarzo romboedrico si è scontrato, a seconda dei giacimenti, con l’ortosio o con il microclino, che presentano giochi di simmetria diversi dai suoi, ma non meno fissi e rigorosi. Non che fosse possibile qualunque intersezione, tutt’altro; lo erano solo ed esclusivamente quelle, poco numerose, determinate dall’incontro fra cristallizzazioni concorrenti. Anche i modelli si ripetono, nella pietra, in modo cieco e inevitabile, ma forse più spesso di quanto lo facciano, in un testo, le lettere di un alfabeto autentico, o in ogni caso con una frequenza dello stesso ordine.

Nel regno del silenzio assoluto, là dove nessun significato è immaginabile, una serie di segni, per il solo fatto di formare una totalità, non si limita ad annunciare quell’organizzazione rara e difficile, esaustiva per principio, in cui consiste un alfabeto. Ne rivela anche una legge accessoria, ad un tempo costante, nascosta e quasi superflua, quella che obbliga i segni, suscettibili di uno sfruttamento combinatorio illimitato ed economico, a sorgere dalla rottura, accidentale o intenzionale, di uno schema invisibile e semplice, che ora deriva dalla sintassi stessa della materia, ora è più presentito che preliminare, ma svolge ugualmente la stessa velata funzione.

Nel caso di una scrittura vera e propria, i vincoli che porta con sé il passaggio da un sistema di elementi sonori a un corrispondente sistema di simboli visibili determinano gli obblighi specifici di ogni alfabeto fonetico. Nel caso dell’alfabeto fantasma e senza impiego del granito grafico, analoghe costrizioni governano l’insieme di frantumi di spigoli e angoli nati da una struttura cristallina definita, messa a contatto con un’organizzazione che la schiaccia, l’orienta e la spezza. Eccomi dunque indotto, una volta di più, a trarre da un’evidenza triviale una conclusione temeraria: il granito grafico non ci offre un alfabeto, bensì la matrice ideale di ogni alfabeto, un principio di cui gli alfabeti autentici potranno persino fare a meno, il giorno in cui saranno divenuti puramente algebrici. Tuttavia, per secoli, saranno stati a loro volta, almeno parzialmente, in qualche modo naturali. Le loro lettere, che hanno lo stesso profilo e andamento, rendono ognuno di essi identificabile e consentono alla corsiva mano dell’uomo di tracciarle di seguito, in modo uniforme, così come all’occhio umano di percepire in esse la promessa di un significato.

Decifrare i segni del granito grafico non avrebbe, a rigore, alcun senso, non più di quanto ne abbia la lettura delle scorze dei platani, delle forme delle nuvole o dell’ascendente dei pianeti, e non più di quanto ne abbia la lettura dei sogni, che sono anch’essi scorze e nuvole, ma dell’anima. Nei segni sulla pietra non si potrebbero trovare, e in effetti non si sono trovati, che strutture di poliedri infranti o veli di vapore sul punto di svanire. Resta il fatto che, negli archivi della geologia, era già presente, disponibile per operazioni inconcepibili, il modello, ancora privo di destinazione, di armonicità e di posterità, di quello che assai più tardi sarebbe stato un alfabeto. L’accostamento spontaneo che da subito seduce la coscienza ingenua non appare, alla fine, così metaforico e futile come la riflessione si era persuasa che fosse, quando si era rimproverata la propria credulità.

Corsivo

Tra i cristalli e i caratteri di stampa non c’è, a parte l’origine e la funzione, un’opposizione di fondo: entrambe le specie sono rigide, prive di sfumature, quasi fabbricate a macchina. Né gli uni né gli altri possono dirsi ossessionati dal fremito della vita. Non è quindi sorprendente che si scopra tra loro qualche rapporto di parentela. Ma una riga di lettere unite, tutte con pieni e filetti, aste e curve di transizione, anticipate dal movimento di un polso irresistibile, esso stesso schiavo dell’idea (che nel suo passare allo scritto governa neuroni, muscoli e tendini, al termine di commutazioni inimmaginabili e di enigmatiche reintegrazioni di un’esattezza infallibile): sembra escluso che un automatismo indifferente, che fa parte della sintassi fondamentale dell’universo, possa mai procurarne una qualche parvenza, sia pure derisoria. Questa volta gli itinerari sono troppo incompatibili. E tuttavia esistono impossibili libri magici naturali, che non sono stati scritti né dagli uomini né dai demoni, nei quali il testo è consustanziale al supporto, e che fin dall’origine erano nati come vestigia, e vestigia di nulla, come apparenze di edifici mai costruiti che un archeologo scambiasse per rovine.

Una mica traslucida lascia scorgere qualcosa come dei resti di scrittura, o piuttosto l’impronta incompleta lasciata su una carta assorbente, rilucente, da un messaggio tracciato in fretta e subito asciugato. I filetti sono scomparsi, ma non i tratti più accentuati, le virgole, le aste, i freghi, le sigle. Come su una carta assorbente, non sussiste nulla che sia leggibile. L’inchiostro nero è rimasto nero, quello rosso ha virato allo scarlatto, se non all’arancione. Si è diluito di più, formando delle aureole, delle macchie.

Dapprima sembra che le righe si incrocino in ogni direzione. Si può supporre che la carta assorbente sia stata applicata ogni volta a casaccio. Ma non è così: i segni illeggibili conoscono solo tre direzioni, sempre le stesse. Quando si intersecano, disegnano dei triangoli regolari che a loro volta si accavallano. L’insieme forma una griglia piuttosto fitta, anche se l’intervallo tra le righe è ragionevole. Ma la carta assorbente è stata usata molto. Gli spruzzi rossi danno un po’ di vivacità al tutto. Quanto all’angolo immutabile degli incroci, deriva dalla struttura cristallina della mica.

Sfaldare il minerale è così agevole che, per quanto sottili si possano immaginare i vari fogli, non è mai difficile scinderli ulteriormente, introducendo nel loro spessore una lama molto sottile, che li divide per semplice pressione. La duplicazione si effettua perpendicolarmente nel senso del cristallo. Al punto che questo viene a volte chiamato «libro», e «fogli» le lamelle flessibili che da esso si possono staccare.

Mi arrischio a compiere l’operazione su una lastra carica di scrittura: ciascuna delle lamine disgiunte reca un testo, ma adesso più sbiadito. C’era un’infinità di carte assorbenti, e ognuna è stata utilizzata una sola volta. L’ammasso di limpide placche costituisce archivi inesauribili, nei quali sono sepolti, in sedimenti sovrapposti, dei segni interrotti, prigionieri di una materia diafana e anormalmente tenace, giacché resiste tanto al fuoco quanto all’acqua, mentre il sale si scioglie e il diamante si consuma. Le lettere smussate, asciugate, assorbite per metà, tratteggiano le ombre ambigue e ingannevoli di un illusorio testo. Certo, ogni pagina leggibile avrebbe lasciato sull’avida sostanza tracce altrettanto indecifrabili. Non le sarebbe servito a nulla il fatto di aver contenuto, in precedenza, un messaggio. Sulla superficie sottile, si snodano invano dei tracciati rettilinei, le zampe di gallina di una scrittura rapida, la precipitazione di una mano impaziente. Da qui l’immagine di una scrittura fossile racchiusa in uno spessore scintillante che non cancella niente, che accumula i fogli di un palinsesto divisibile all’infinito. Fogli che recano le impronte speculari di migliaia di minute fantasma. Gli strati pellicolari si ammucchiano, confusi senza confondersi, come fotografie scattate con maligna insistenza su una stessa lastra sensibile. Ma i volumi autentici, quelli che dormono nelle biblioteche, quando saranno divenuti altrettanto vecchi non saranno certo più nitidi.

Ammiro questo perfetto simulacro, che si direbbe inventato con cura allo scopo di allarmare gli scrittori. Del tutto inutilmente, presumo, tanto essi hanno radicato nell’animo il furore di scrivere. Ma, come il cranio nelle «vanità» di una volta, non sarebbe superfluo se tenessero davanti agli occhi, per richiamarli alla modestia, le grafie rosse e nere della mica, miraggi e avvertimenti, povere rune adatte solo a lasciare qualche traccia umida e allarmante sulla carta assorbente dell’inesorabile memoria, come se i capricci della mineralogia annunciassero il destino di ogni letteratura.

(Traduzione di Giuseppe Zuccarino)

* Signes mimés è apparso inizialmente in due volumi di Caillois: Malversations, con illustrazioni di Nicolas Carréga, Paris, André de Rache, 1975, e Pierres réflechies, Paris, Gallimard, 1975, pp. 47-59; è stato infine riedito in Malversations, con illustrazioni di Jean-Gilles Badaire, Montpellier, Fata Morgana, 1993, pp. 9-23. [N. d. T., come la successiva.]

1 Cfr. R. Caillois, L’écriture des pierres, Genève, Skira, 1970; Paris, Flammarion, 1987 (tr. it. La scrittura delle pietre, Genova, Marietti, 1986; Milano, Abscondita, 2013).

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