
«Stato inferto»
Parleremo, dunque, di una rivista. Una rivista insolita, per cui occorrerebbe una definizione in termini al tempo stesso negativi e relazionali: qualcosa di simile a ciò che scriveva Musil a proposito della metropoli moderna – pensabile, secondo la sue parole, come «costituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose e di eventi, e, frammezzo, punti di silenzio abissali». «Stato inferto» non è una rivista d’arte, né di letteratura, né di filosofia, sociologia o altro. Nondimeno partecipa, a suo modo, di alcune o di tutte queste pratiche discorsive. Di una tale natura ibrida potrebbe farsi un vanto, e proclamare di sé, al modo del pipistrello di La Fontaine: «Sono uccello, ecco le ali. / Sono topo, evviva i sorci!». Ma di tale possibilità preferisce non avvalersi, e respinge con fermezza la qualifica, ormai pienamente rassicurante e appunto per questo invalsa, di «interdisciplinare», preferendo dichiararsi piuttosto, ove occorra, «indisciplinare».
Dovendo dunque, in forza delle circostanze, dare un’idea più concreta di ciò di cui si sta parlando, e nell’impossibilità, come si è visto, di cogliere subito il centro della rivista, per la semplice ragione che tale centro non sussiste, converrà tentare un approccio indiretto, muovendo proprio da un dato fra i più esterni e marginali. Vogliamo dire il titolo, di cui non offriremo qui una spiegazione, ma soltanto una, o piuttosto diverse letture. Lo si può leggere innanzitutto come una versione ellittica della formula, oggi molto praticata, specie nel linguaggio giornalistico, «è stato inferto…» (per esempio: «È stato inferto un duro colpo alle organizzazioni eversive», o «ai trafficanti di droga», «alla malavita organizzata», e così via, con esiti non certo equivalenti). Ma lo si può assumere altresì come espressione autonoma, se non che in tal caso occorre scegliere tra diversi, possibili, significati. «Stato», infatti, può designare almeno, senza voler dar fondo alle risorse dei dizionari, un’entità politica, una condizione o situazione, oppure ancora un «status» in senso sociologico. Quanto ad «inferto», può voler dire «inflitto», «arrecato», detto di colpi o ferite (fisiche o morali), ma può anche significare «dedotto», «desunto» o «argomentato».
Se vi si è annoiati con queste distinzioni, non è per crudeltà mentale, ma al fine di fornire un modello minimo per un possibile impiego della rivista nel suo complesso. Dove non si tratta solo del fatto che ciascuno sceglie la lettura che preferisce, essendovene molte a disposizione, ma soprattutto di un altro aspetto della questione, che cioè nessuna lettura sarà mai neutra o casuale, ma implicherà comunque, in un modo o nell’altro, una decisione o proiezione di natura ideologica. Che la rivista, dal canto suo, non sia estranea a preoccupazioni di quest’ordine, lo dimostra già il suo marcato carattere funereo, che certamente non mancherà di infastidire i pochi lettori, carattere la cui origine da considerazioni non meramente individuali è suggerita perfettamente, con evidenza visiva, da quel Trauerspiel, da quella «rappresentazione luttuosa», che Giuliano Galletta ha saputo inscenare nella serie di immagini che figura nell’inserto centrale di questo primo numero.
Tuttavia, per concludere, non è tanto nel ripiegamento malinconico che ci sembra consistere lo spirito più proprio della rivista, quanto piuttosto in quell’ironia che ne costituisce l’unica possibile unità di tono, e che consente forse di guardare senza troppe illusioni all’oggi, aprendo nel contempo un qualche spiraglio all’emergenza del nuovo.
[1981]
«Arca»

All’inizio del 1808, Clemens Brentano e Achim von Arnim fondano una rivista, destinata a durare solo pochi mesi, alla quale danno un titolo piuttosto singolare: «Zeitung für Einsiedler» («Giornale per eremiti»). La formula è spiritosa proprio in quanto appare intrinsecamente contraddittoria. Come dovrebbe essere – viene da chiedersi – un giornale, per poter sperare di suscitare l’interesse degli eremiti, ossia di persone che non si identificano con i valori correnti della società in cui vivono, e che hanno scelto la solitudine come forma di fedeltà alle proprie idee? Certo dovrebbe trattarsi di qualcosa di assai diverso, sia per la forma che per il tipo di notizie trasmesse, rispetto ai giornali consueti.
A un tale, improbabile, «giornale per eremiti» si è portati a pensare in relazione ad «Arca», i cui lettori sono appunto necessariamente rarissimi (vista l’esigua tiratura della rivista) e dispersi in vari luoghi, perlopiù periferici, della Tebaide letteraria italiana. Così come i redattori sono costretti ad essere selettivi nell’identificare, uno per uno, i propri lettori, sperano di esserlo anche nella scelta dei testi da proporre. Ecco perché, sui fogli racchiusi in buste che costituiscono i numeri, tutti monografici, di «Arca», si incontrano prose e poesie di autori di indubbio rilievo, che vanno da Shakespeare a Rilke, da Nerval a Blok, da Beckett a Michaux, per fare solo qualche esempio. Ad essi – visto l’interesse dei redattori per il nesso che unisce letteratura e arti visive – si affiancano a volte scritti di o su pittori (come Braque, Giacometti e Masson). Si tratta quasi sempre di testi mai tradotti nella nostra lingua, e scelti dunque nell’ambito di quella vasta serie di opere essenziali che troppo spesso l’editoria «ufficiale» sembra farsi un vanto di ignorare o trascurare.
Accanto ai nomi che è d’obbligo definire grandi ve ne sono però altri quasi sconosciuti, e questo non perché vi sia l’intento di equipararli ai primi o la speranza di farli brillare di luce riflessa, ma piuttosto perché – sarà bene precisarlo – una rivista come «Arca» ha un carattere essenzialmente privato, fondandosi su quella pratica ardua e gratificante che chiamiamo amicizia (e l’amicizia, come ricorda Pascal Quignard, «è l’unica vera società segreta»). Tra autori e lettori – ma i due ruoli sono tendenzialmente reversibili – si stabilisce dunque un dialogo, che serve a rendere conto delle rispettive esperienze di scrittura. È vero infatti che chi lavora ad «Arca» (al pari di chi la riceve) si pone consapevolmente nel ruolo dell’eremita, e dunque accetta di rendersi invisibile per i più, ma ciò non toglie che egli avverta la necessità dello sguardo, al tempo stesso complice e impietoso, degli amici. Come diceva una volta André Malraux, «è difficile, per chi vive fuori dal mondo, non andare in cerca dei suoi».
[1995]
«Scriptions»

«Scriptions» è definibile in due modi diversi: come una rivista, ma anche come una serie di quaderni di letteratura e d’arte. Ogni fascicolo si presenta, fisicamente, nella forma di una custodia di cartoncino (impreziosita da un disegno di Luisella Carretta), che contiene al suo interno dei testi in fotocopia, o delle immagini, o una mescolanza fra le due cose. La rivista, che è nata nel 1999, si articola infatti in tre serie, dedicate rispettivamente agli scritti letterari, ai lavori visivi e all’incrocio fra i due linguaggi. È importante il fatto che ogni numero venga prodotto in soli quaranta esemplari, perché ciò indica con chiarezza la volontà di porsi al di fuori del normale circuito commerciale e di stabilire un ambito di comunicazione più ristretto, per il piacere di creare un oggetto un po’ segreto, non inaccessibile ma neppure platealmente offerto all’eventuale lettore.
Vale la pena di soffermarsi sul titolo: «Scriptions», infatti, è una parola francese, ma di uso assai raro in quella lingua. Marco Ercolani, ideatore assieme a Luisella Carretta dei quaderni, l’ha scelta pensando a due autorevoli esempi di impiego del termine. L’uno è quello offerto dal critico Roland Barthes, che in un libro dal titolo Variations sur l’écriture (scritto nel 1973 ma apparso postumo nel 1994) ha utilizzato il vocabolo per indicare «non la scrittura quando è compiuta, ma nell’atto del suo farsi». L’altro è quello del pittore Jean Dubuffet, che ha chiamato Scriptions una serie di disegni a pennarello nero su fogli di piccolo formato, eseguiti negli anni 1983-84 in parallelo a uno dei suoi ultimi cicli pittorici, le Mires. Le accezioni date alla parola dai due autori appaiono dunque diverse, ma convergenti quanto al senso profondo. Sia in letteratura che in pittura, infatti, gli artisti avvertono spesso il bisogno di fare dei tentativi, magari provvisori e arrischiati, e tuttavia utili a sondare terreni nuovi, ad aprire vie inesplorate. A volte essi distruggono tali prove, considerandole come semplici esperimenti in vista di opere più compiute, ma in altri casi le conservano, attribuendo loro un significato e un valore autonomi. Quello costituito dalla rivista «Scriptions» vuole appunto essere uno spazio di ricerca più aperto del consueto, in cui i singoli autori possano proporre anche testi o immagini che siano «in lavorazione», o che si situino in margine rispetto alla direzione centrale del loro operare.
Volendo limitare l’attenzione alla serie letteraria, nella quale sono usciti finora sedici quaderni, noteremo subito che, accanto ai testi di scrittori attualmente in attività ne figurano altri di autori classici o comunque ben noti (Joubert, Coleridge, Eliot, Reverdy, Char, per citarne solo alcuni). Ciò dipende dal fatto che una delle pratiche in cui si cimentano volentieri i collaboratori di «Scriptions» è quella della traduzione. Va detto però che all’atto del tradurre si unisce quasi sempre, per restare fedeli allo spirito della rivista, il gusto della scoperta di scritti minori o trascurati, ancora inediti in italiano. Un’altra caratteristica importante dei quaderni consiste nella pluralità dei generi che in essi trovano accoglienza: a seconda dei casi, si tratta di poesie, racconti, aforismi, appunti, note di diario, recensioni, saggi critici. Quindi – a parte, com’è ovvio, le considerazioni di ordine qualitativo – l’unica limitazione nella scelta dei testi è quella che obbliga a privilegiare i pezzi brevi e a far coesistere di norma, in uno stesso fascicolo, autori diversi.
Anche se «Scriptions» può rivelarsi, per il lettore interessato alla letteratura e all’arte, fonte di scoperte molto stimolanti, verrebbe voglia di dire che non è tanto o in primo luogo a lui che la rivista si rivolge. Essa infatti intende innanzitutto offrire uno spazio di libertà ai produttori stessi. Nella società odierna, com’è noto, la letteratura viene ormai misurata quasi esclusivamente in rapporto al pubblico, ossia in termini di copie vendute, di premi ricevuti o di visibilità mediatica dell’autore. Fa sorridere il fatto di leggere, in un testo di Schiller, frasi come le seguenti: «L’utile è il grande idolo del tempo, e ad esso tutte le forze devono servire e tutti i talenti prestare ossequio. Su questa rozza bilancia il merito spirituale dell’arte non ha nessun peso e […] scompare dal chiassoso mercato del secolo». Se ciò accadeva già alla fine del Settecento, cosa dovremmo dire ora? L’unica alternativa resta per noi quella di rifiutare, nella misura del possibile, questo modo ormai diffuso e consolidato di considerare le cose. Riprendendo le parole di un altro grande del passato, sarà quindi opportuno ribadire che la letteratura e l’arte in genere continuano ad apparirci più che mai necessarie, ma ciò non vale per le troppe opere che vengono costruite e valutate solo in base ai sondaggi mercantili. «No – diceva Nietzsche – se noi […] abbiamo ancora bisogno di un’arte, questa è un’altra arte – un’arte beffarda, leggera, fuggitiva, divinamente imperturbata, divinamente artificiosa, che avvampa come una fiamma chiara in un cielo sgombro di nubi! Soprattutto: un’arte per artisti, soltanto per artisti!».
[2004]
Un pensiero riguardo “RIVISTE INVISIBILI. Giuseppe Zuccarino”