(per la poesia di Anna Cascella Luciani)

«Mi stanca scomparire / di continuo – anche / iI sole va via / solo una volta / al giorno e così fa / la luna e anche / le stelle –perché / io – piccolo corpo / e pelle – dovrei / cancellarmi per te / continuamente?»
Anna Cascella, mentre scrive versi e dice io, non è un poeta di cui vogliamo leggere le opere: è una ninfa, un essere amante, delicato e fuggitivo che trasvola fra le parole e ci parla dei trasalimenti dell’amore: il suo vibrafono è impareggiabile, difficile da imitare. Forse solo nei Tristia o negli Amores di Ovidio cogliamo, sotto il tessuto dei versi, lampi della poesia futura di Anna.
La sua poesia è un inno ininterrotto e impertinente all’amore, alla giovinezza, alla vita, un canzoniere erotico scandito da versi brevissimi, colti in una gioiosa e innamorata irrequietezza. «E il verbo, si sa, trascina dietro una storia, un movimento, un luogo. È l’unica parola che da sola ha un senso per tutti gli uomini. La poesia si è spogliata dei suoi artifizi per esprimere un modo di essere, di esistere» (Leonardo Sinisgalli). I verbi di Anna Cascella, il suo semplice e ondivago parlare d’amore (“dici”, “sali”, “parti”, “cerco”, “amo”), effondono questa irrequietezza come un aroma erotico.
«Non c’erano a Orte / cartoline dove io / presi un treno pure / ti scrissi che sorte / felice io non temo»
Il suo discorso poetico è un ininterrotto discorso contro la morte, retto da una musica lieve dove i versi, come evaporati, si presentano al lettore aerei, senza peso:
«So benissimo / che esistono i vermi / e il mio corpo sarà / decomposto e i miei versi / non certo gli eterni / avamposti d’amore ma Dio Santo / lasciatemi in pace – voi / in cui tace la misura / d’amore»
La “misura d’amore” è la necessità di essere libera e viva, come se, prima della poesia che sta scrivendo e che noi leggiamo, nulla esistesse e l’atto poetico fosse sorgivo, immediato, incontenibile. Innocenza non esiste, nella scrittura. Ma nei versi di Anna affiora una consapevole illusione di innocenza, uno strategico uso di rimandi e di echi, “a passo di danza” (Giovanni Giudici), nell’uso della rima e del verso breve, che fanno di questa poesia un inequivocabile dono amoroso, immune dai codici della storia e del pensiero, un dono che ci arriva dall’isola incantata del Prospero shakespeariano.
«scriverlo / grande sui muri: / “ti amo – sta / attento – non siamo / sicuri” graffiti / detriti – roveti / confusi – ricordo / disastro
morte – reclusi»
Di Cascella scrive Alessandra Paganardi: «Anche la poesia può fare questo, può diventare un ricamo che sprofonda nella stoffa ma poi balza di nuovo in aria, in un battere e levare che è vita della parola, vita del mondo, vita che non finisce».
Il “ricamo”, in questa lingua ventosa ed enigmatica, è una parola felicemente vera. Senza verità, l’uomo muore; ma senza finzione non è autentico. Verità e finzione fanno parte della sola, possibile riconciliazione concessa alla parola nella sua resistenza all’assedio della normalità. In questa poesia la finzione è il continuo “parlar d’amore”, il dimenticarsi i nodi, i documenti, le noie del vivere. Non esiste, nel linguaggio di Cascella, la fascinazione linguistica del dettato poetico, ma il potere magico, dentro una parola liquida e cantilenante, di persuadere che tutto è amore, incontro, incanto; ininterrotto narrarsi e restare fedele al proprio inenarrabile sogno amoroso: sogno vero perché cerca di affiorare sempre, anche dalla nebbia che vorrebbe soffocarlo: e scaturisce in versi brevi e cantabili, che delineano senza addensare e descrivono senza dire.
Con Anna, l’apparente assenza di pensiero è la radice necessaria e sorgiva del “ragionar d’amore”. Per lei, come scrive Musil, «La verità non è un cristallo che ci si possa infilare in tasca, bensì un liquido infinito nel quale si precipita». Cascella si avvicina, nel suo tormento creativo, a quanto con sereno realismo scriveva Coleridge: «Poiché la funzione della passione non è di creare, bensì di portare al maggior grado di espressività ciò che esiste». Anna non è solo immersa nella sua mobilità espressiva, erotica Achmàtova del nostro tempo, sorpresa a bisbigliare, fra sé e sé, di incontri interrotti e di amare delusioni: in lei l’angoscia sotterranea della morte è sempre palpabile, e questa splendida poesia lo testimonia, con la levità di versicoli come improvvisati che narrano in poesia, non frantumando la trama ma alleggerendo il tessuto, due celebri suicidi, quello di Primo Levi e quello di Walter Benjamin:
«– di Levi non si sa / se fu malore improvviso / a scivolarlo per il cono / oscuro delle scale – lo stretto – / buio cunicolo d’abisso – / simile alla polvere-fumo / degli uccisi ad Auschwitz / che salire vide – in peso / di gravità incontraria – / nel campo dove ebbe / reclusione – o se fu / il sopravvissuto dolore / a portarlo via – Torino – / 11 aprile dell’ ’87 – / e Benjamin – a un passo / dalla forse salvezza – in fuga / dall’orrore che lo perseguiva – / si uccide – nella notte / del 25 settembre del ’40 – / Portbou – frontiera / tra Francia e Catalogna – / non reggendo ansia / di fuga – di persecuzione»
Ma l’immagine più favolosa ed esatta di Anna Cascella, che trasfonde in versi il suo vissuto di donna ai margini del mondo dei vivi, è evidente in questa struggente poesia della scomparsa e della presenza, nata da un dettaglio biografico e sconfinata in epifania dell’aldilà:
«Simone ed Esmeralda / se ne vanno per il rione / Prati – nell’eterna / Città del desiderio. / Simone mostra un nome / ad Esmeralda: il mio / su un citofono – nome / che lì è ancora – ed io / non sono lì. Se avessero / premuto il campanello / e avessi sentito dire / “siamo Simone ed Esmeralda. / Vorremmo salire” avrei / risposto “certo – venite – / sono qui in ombra – in anima / sono nelle stanze che tu, / Simone, conosci. I libri / alle pareti – i quadri – / le conchiglie. Le figlie / del silenzio – cortesi – / gentili – danno spazio” –»
Lo spazio dell’opera e del destino di Anna potrebbe oggi essere definito da questi versi: «Nome / che è lì ancora – ed io / non sono lì». Dove alla massima semplicità dell’espressione corrisponde una tramatura sottilissima, che ci riporta ancora una volta alla suggestiva metafora del “ricamo” sui bordi del nulla.
A lettura ultimata, il libro di Anna (Tutte le poesie 1973-2009, Gaffi editore, 2011) appare come una raccolta di armoniosi ma irrequieti frammenti su temi noti – amore, conoscenza, morte – e la sensazione che resta al lettore non è quella del libro summa di una vita poetica ma di un’inquietudine ariosa, da Ariele shakespeariano, che esigerà ancora nuovi paesaggi, nuove parole. Nulla basta, nulla è sufficiente, nel disegno di questa poesia breve, incalzante, tragica, composta da una solitudine ricca, pensosa, leggera. Dove la parola può e deve sconfiggere il silenzio assoluto della morte con una parola sempre ulteriore, dislocante, febbrile, veloce lampo, scheggia, fitta. “L’uomo è metafora” scrive Novalis, e nulla è più reale, più laico e più sacro di questa affermazione.
Il libro mai finito e sempre in fieri di Anna Cascella, il suo “zibaldone” poetico, è composto non solo e non tanto dalle naturali domande che la vita impone all’uomo ma da tutte le risposte a quelle domande, come in un atlante del possibile e dell’impossibile che trascrive il ritmo quotidiano del vivere attraverso il continuo vibrare della percezione verbale. Il poeta oscilla fra cose salde, dove arresta la parola, e soglie labili, che sfuggono sempre. Anna mostra, con i suoi versi ritmici e brevi, una mente disseminata di malinconie potenti e di necessarie strategie di salvezza, che solo la brevitas sa innescare. Da sempre, evocando Char, il poeta non può che fare arte di fronte alla morte, ma ogni volta lo fa con strumenti diversi.
«Sterno / osso impari, / lotto del sogno che regge / clavicola (le sette costole / prime innalza e racchiude), / schiudesse il collo / la voce / anche se implume, / se incerta, / ma / nell’aprirsi vocale / la vita ombelico foro / e natale»
Chi può comprendere completamente il significato di questo frammento poetico? Forse nessuno, interamente. Ma si ha l’impressione, come per la scrittura lampeggiante della Ortese, di un movimento di pietà verso la vita, di un gesto vocale assoluto, che il foro dell’ombelico testimonia, punto sacro da cui passa e soffia il vivente, scorrendo oltre, irrequieto.
Come scrive Emily Dickinson, nella traduzione di Silvia Bre: «Questo mondo non è conclusione, / c’è un seguito oltre – / invisibile, come musica – / ma reale, come suono – / attira e confonde – / la filosofia non sa».
Infatti, la filosofia non sa. È solo il poeta a sapere tutte le oscurità («…mormoro un sogno / che mi riposa nel sonno / meridiano») e tutti gli spossessamenti (« tu – finalmente – tornato – invadente»).